domenica 16 maggio 2010

Sogno metropolitano




Precisamente ogni mattina, precisamente alle 8.35, precisamente sulla Linea A, si gustava il suo spettacolo quotidiano. Da caso fortuito l’aveva fatto diventare un’abitudine e poi un rituale a cui ormai non poteva più rinunciare. Aveva coordinato l’inizio della sua giornata per non perdere quel momento. Tutto organizzato nei minimi dettagli, perché un ritardo di un minuto voleva dire non vederla per 48 ore.
La sveglia suonava alle 7.45 esatte. Aveva due minuti per stare nel letto, prima di alzarsi e fare la pipì. Per il caffè e la colazione aveva 13 minuti, poteva arrivare a 14 quando c’era da aprire la nuova confezione di caffè e travasarlo. Nella doccia poteva stare 8 minuti e per asciugare i capelli aveva 2 minuti. Si lavava i denti in 3 minuti, cronometrati. 5 minuti per vestirsi: a cosa mettersi ci pensava la sera prima. E alle 8.20 usciva di casa, scendeva le scale, girava l’angolo a destra. Percorreva i duecento metri che lo separavano dalla fermata della metro. Scendeva e aspettava il suo treno, quello delle 8.35.
Saliva sul terzo vagone. Uno, due tre. Porta di destra. Angolo di destra appoggiato al muro. E aspettava due fermate prima del miracolo. Le porte si aprivano e saliva il suo sogno. Chissà cosa avrebbe indossato? Quella settimana ancora non aveva mai messo le ballerine rosse. E infatti, eccole ai piedi. Aveva anche gli occhiali da vista quella mattina. Rossetto rosso e capelli legati. Si, perché il giorno prima erano sciolti e fluenti. Li avrebbe lavati quella sera.
Solita borsa di cuoio, poggiata tra le gambe dopo essersi seduta sul solito posto centrale. Erano 4 giorni che apriva Jane Eyre, la vedeva avanzare nella lettura.
Era un intimo spettacolo e gli sembrava fosse solo per lui. Fosse il suo premio per iniziare la giornata. Non voleva sapere nulla di lei, preferiva immaginarla. Le aveva dato un nome: Sofia. Se la immaginava insegnante in un asilo nido che si trovava accanto alla fermata dove ogni mattina lei scendeva. Aveva spesso borse colorate con tanti fogli dentro. Per lui erano i disegni dei suoi bambini.
Non l’aveva mai sentita parlare al telefono, in realtà non l’aveva mai vista con un telefono. Immaginava che non lo avesse.
Immaginava che lei non lo avrebbe notato mai, come fino ad allora era stato. Lui la guardava, ma non la fissava. Non appena lei faceva cenno di alzare gli occhi, lui li abbassava. Se per caso gli squillava il cellulare, non rispondeva. Lasciava continuare la vibrazione per non rompere quell’incantesimo.
Dopo tre fermate lei chiudeva il libro e si alzava, andando ad afferrare la maniglia accanto alla porta. Guardava sul vetro, persa nei suoi pensieri. Poi scendeva e andava verso destra, verso l’uscita. Il treno lo portava nella parte opposta, verso la sua destinazione e lui la seguiva con lo sguardo finchè poteva, finchè riusciva a scorgerla.
Solo allora poteva iniziare la sua giornata. Raggiungere il suo studio e iniziare a progettare.
Quella mattina, la mattina del 13 aprile, lei non si sedette. Rimase in piedi, eppure di posto ce n’era. Si mise di fronte a lui. Non aprì il libro. Si appoggiò alla parete. Guardava a terra, le sue scarpe. Quella mattina erano stivaletti neri. Aveva un cappello viola in testa, che le pendeva da un lato. Quando alzò gli occhi stava sorridendo. Lui pure le sorrise, senza parlare.
Lei non scese alla sua fermata. E neppure lui alla sua. Arrivarono al capolinea e scesero insieme, senza smettere di sorridere. La folla si disperse e rimasero fermi, l’uno di fronte all’altra.
Lei: Perché abbassavi lo sguardo quando lo alzavo io?
Lui: Perché non volevo essere scoperto
Lei: Ma è proprio così che ti sei fatto scoprire
Lui: Allora forse volevo essere scoperto
Lei: Mi chiamo Susanna
Lui: Non Sofia? No, scusami… nulla. Io Marco.
Lei: Sapevo che prima o poi avrei dovuto fare qualcosa
Lui: Non pensavo…
Lei: Lo so. Caffè?
Lui: caffè.