giovedì 16 dicembre 2010

domenica 12 dicembre 2010

Nello stomaco sei sempre solo. E pure nel ricordo. Riflessioni tra Kundera e Ligabue




Scorrendo la mia libreria o meglio, quella figlia che lentamente e con costanza mi sto crescendo, mi è capitato tra le mani un bell’Adelphi color cobalto: L’Ignoranza di Kundera. Questo libro mi è caro per più di un motivo: primo per cause contingenti, visto che l’ho trovato al mercatino dell’usato della mia città ed è sempre un piacere fare scoperte di questo tipo. Secondo, perché dopo aver letto l’Insostenibile leggerezza dell’essere, Kundera mi si è riconfermato geniale. Terzo, perché mi ha dato modo di riflettere su un tema affascinante ma non sempre considerato giustamente, cioè quello del ricordo. Più precisamente del ricordo soggettivo. E ultimamente ci sto pensando tanto a questa genialità colta da Kundera: molto spesso, anzi quasi sempre aggiungerei io, diamo per scontato che i ricordi che condividiamo con gli altri figurino nella mente degli altri con le stesse sfumature che hanno nella nostra. Salvo poi accorgerci, con un tonfo dalle nuvole, che non è così! E non lo è mai! Per il semplice fatto che la realtà la viviamo filtrandola attraverso di noi e per questo non è univoca. La stessa situazione può rimanerci in mente per un profumo o magari per un colore. A me per un profumo, a te per un colore. Ed ecco già che ci sono due ricordi diversi della stessa situazione. Per non parlare del bagaglio emotivo attraverso cui filtriamo le nostre esperienze e che è inevitabilmente diverso da quello di chiunque altro.
Ora ho deciso di non rimetterlo a posto questo libro. Me lo tengo qui, sulla scrivania, accanto all’agenda. Tra il telefono e il lettore cd. Così, come un promemoria alla vita. L’Ignoranza di Kundera, come l’ignoranza nostra rispetto ai ricordi degli altri, come l’ignoranza dell’altro rispetto al mio ricordo. E se a Sartre veniva la nausea a pensare quanto diavolo fosse solo in se stesso, quanto fosse insuperabile il suo solipsismo, e se pure Liga l’ha capito che “Nel mio stomaco sono sempre solo, nel tuo stomaco sei sempre solo, quello che senti lo sai solo tu”, userò Kundera proprio come promemoria di tutto questo.
Per evitare di cadere in illusioni grossolane, in delusioni ingenue, per evitare di rendere assoluto il soggettivo, di imporre al MIO ricordo lo statuto ontologico di “IL RICORDO” . Non esiste un ricordo assoluto. Esiste il mio. E il tuo. E non coincidono mai, ma proprio mai mai.

Educazione, arte, comunicazione. Cultura è panacea per l'Italia.




La cultura è l'urlo degli uomini in faccia al loro destino, sosteneva Albert Camus. E mi sento di interpretare quest’urlo come alternativa costruttiva rispetto alla finitezza umana. Cioè a dire, di fronte al memento mori dei monaci trappisti, possiamo opporre una ricchezza di vita costruita giorno dopo giorno con la cultura, intesa in senso lato come conoscenza del mondo umano in particolare e della natura in generale.
Di fronte a questa perla di Camus, è facile sentirsi atterriti in quest’Italia di inizio millennio dove la cultura, fresca di nuova vita popolare conquistata a duro prezzo nel Novecento, viene considerata alla stregua di un surplus rispetto alle esigenze della società. Specchio di questo atteggiamento è la politica scolastica e universitaria che è stata intrapresa da questo Governo e, per onor di cronaca, anche dai precedenti che si sono susseguiti. È miope, forse volutamente, chi non capisce come la cultura, soprattutto nella forma dell’educazione e del la formazione scolastica, sia la linfa vitale della nostra società.
Per cultura però si intende, oltre alla scuola, anche il patrimonio artistico che in Italia è fonte di ricchezza economica e non. E Pompei con i suoi crolli è solo l’ennesima dimostrazione dell’abbandono colpevole dei beni culturali del nostro Paese.
In ultimo, triste corollario di una situazione culturalmente arida, è il trionfo del nulla nei mezzi di comunicazione, primo fra tutti nella televisione. È paradossale come lo strumento meritevole di aver unificato in pochi anni un Paese linguisticamente diviso, sia diventato contenitore di nullità riuscendo a mettere in luce gli aspetti peggiori dell’immaginario collettivo, e non penso solo al Grande Fratello.
C’è però, bisogna dirlo, un’altra Italia, che nella cultura ci crede ancora e ci crede come bene pubblico da difendere ad ogni costo. È l’Italia degli studenti sui monumenti, dei ricercatori che vogliono ricercare, dei lavoratori che esigono di poter lavorare. È da questo segnale che si può e si deve guardare a un futuro ricco di cultura che sia pubblica, di tutti.
Su tre livelli quindi, dovrebbe rinascere il programma culturale del nostro Paese: Educazione, arte, comunicazione. Tre pilastri sociali su cui costruire il futuro, sfruttando la ricchezza del web.
Ci vorrebbe un Rinascimento del 2010 e forse la chiave di tutto questo potrebbe stare proprio nella rete, in Internet, oggi unico destinatario, oltre ai libri che non periscono mai, di una cultura popolare e capillare fruibile velocemente da tutti.
È questo l’augurio per il nuovo anno, sperando nel frattempo che la Camera martedì sfiduci Berlusconi, dando un messaggio positivo da cui ripartire.

mercoledì 1 dicembre 2010

Freud: l'esame di realtà per ripartire




In un breve saggio del 1925 “La negazione”, Freud scrive:

La funzione del giudizio ha in sostanza due decisioni da prendere. Deve concedere o rifiutare una qualità a una cosa e deve accordare o contestare l’esistenza nella realtà a una rappresentazione.”

E continua, riguardo alla seconda decisione: “Ora non si tratta più di stabilire se un qualcosa che è stato percepito debba essere accolto nell’Io oppure no, ma invece se una certa cosa, presente nell’Io come rappresentazione, possa essere ritrovata anche nella realtà.

Vale a dire si tratta dell’esame di realtà. All’Io-piacere, che rigetta ciò che è male e accoglie ciò che è bene per l’Io stesso, si sostituisce l’Io-realtà che deve affrontare la realtà o meno di una rappresentazione.
Freud sintetizza insomma il dramma infinito della nostra conoscenza: l’inevitabile scontro tra percezione soggettiva e realtà oggettiva, che si manifesta, per Freud, nel momento in cui l’oggetto viene perduto. L’esame di realtà serve all’Io per convincersi che ciò che percepisce come rappresentazione, non ha più esistenza nella realtà com’era accaduto prima, all’iniziale percezione.
A dir poco geniale, secondo me. Basta riferirsi alla nostra esperienza di vita e di affetti per rendersi conto di quanto ciò sia vero. E ancora più importante perché l’analisi Freudiana riconosce il trauma che può causare l’ esame di realtà, ma Freud sottolinea come il pensare la perdita sia il primo passo verso un investimento emotivo ulteriore.
L’esame di realtà è la prova più difficile per l’Io che tende a rappresentarsi e ad avere in sé il bene, giungendo fino a rappresentarsi il bene, anche laddove non c’è.
Freud riconosce la difficoltà dell’apertura emotiva dell’Io e della paura di perdersi nella pluralità delle relazioni umane. Di scoprire di essere uno-fra-gli-altri. Apertura è minaccia. Emozione può divenire sofferenza. D’altra parte, visto dal mio punto di vista e, probabilmente dal punto di vista di Freud, meglio un esame di realtà che ci permetta un vivere consapevole, piuttosto che un investimento libidico fuori dalla realtà.
Detto in altre parole: sempre meglio conoscere la realtà che si ha di fronte, che idealizzarla per il proprio bene. Perché in questo caso si tratterebbe di un bene irreale, alienato e alterato, mentre l’esame lucido di realtà può e deve essere il sostrato da cui ripartire per investire nuovamente, una volta che l’Io abbia superato il trauma, la propria emotività.

martedì 30 novembre 2010

Partecipazione è democrazia. A Roma contro ddl Gelmini.

Non è bastata la pioggia, nè gli schieramenti di forze dell'ordine a fermare stamattina l'onda di studenti che ha invaso Roma. Starci dentro è vivere la protesta da vicino, lottare realmente per ciò in cui si crede. Mentre scrivo continua la consultazione alla Camera. Purtroppo, probabilmente, le sconfitte del Governo sui vari emendamenti non saranno sufficienti a fermare il decreto Gelmini. Comunque andrà, ciò che di buono sta portando questo rivolgimento politico e sociale, è la riscoperta della partecipazione attiva. Stamattina si respirava la democrazia, nel vero senso della parola. Il potere nelle mani del popolo, potere che se non è entrato alla Camera, si è comunque imposto come voce di dissenso, in tutti i visi dei giovani che ho incontrato decisi a far sentire la propria voce. Una voce univoca, unita e forte. Ci siamo fatti sentire, per difendere il diritto più prezioso che c'è: quello all'istruzione di tutti e non solo di pochi. A una cultura che non sia merce di scambio, ma valore fondante della società. Stamattina un grido s'è levato alto da Roma, da Palermo, da Firenze, da Pisa. La democrazia è prima di tutto partecipazione e stamattina tutti noi l'abbiamo onorata, la nostra democrazia.

lunedì 29 novembre 2010

Cristallo e parquet



Immaginate un salone d’altri tempi. Odore del legno del parquet e del mobilio. Grandi finestre e drappi di velluto rosso. Tutto intorno tavolini rotondi. Su ognuno una rosa rossa in un vaso di cristallo. Accanto alla rosa, bicchieri e whisky. Un soffitto alto, al centro del quale s’impone un luminoso lampadario di cristallo.
Un pianista accarezza il pianoforte donando note delicate. Il buio intorno, la luce solo al centro della pista, sui due corpi degli unici protagonisti di quest’immagine. Lei ha un vestito rosso, morbido. I capelli raccolti in uno chignon. Un filo di perle le circonda il collo e le labbra sono rosse e vive. Lui ha un abito scuro, forse nero. Un cravattino sottile e un fazzoletto nel taschino. Gemelli d’oro escono dalla giacca.
Immaginate la scena senza movimento né suono. Immaginate una fotografia, nell’immobilità e nel silenzio.
Con quei due dentro al buio abbracciati e fermi. D’improvviso una nota, un passo. E un’altra nota e un altro passo. E ad ogni nota un nuovo passo. E l’inizio del movimento e della musica. L’inizio lento del ballo che si culla sulle note del pianoforte.
Immaginate il loro movimento e una musica dolce che riempie la stanza. Ogni passo è un’incertezza, una lenta scelta. E la ricerca dell’armonia nella musica. Per non urtarsi, muovendosi rispettandosi, né poco né troppo lontani. Andando insieme nella musica, con la musica. Immaginateli così, nell’unica luce nel buio, nella musica e nel loro lento ballo, cercando l’uno il tempo dell’altra.
E ora immaginate un rumore. Uno schianto. Il lampadario giù, loro a pochi passi. La musica si ferma, le mani via dai tasti, la luce via dalla stanza, i piedi via dalla musica, il cristallo sul parquet.
Immaginate un salone d’altri tempi. E quei due dentro al buio abbracciati. Senza più musica né luce per danzare.

Più libri, più liberi!



Mentre si lotta nelle piazze e su internet per salvare l’Università pubblica, pietra preziosa nell’alveo della cultura italiana, a Roma torna un appuntamento da non perdere. Riapre i battenti il 4 Dicembre, fino all’8 Dicembre, la Fiera nazionale della piccola e media editoria “Più libri, più liberi”. La location, come ogni anno, sarà il Palazzo dei Congressi dell’Eur. Un’occasione per immergersi nei variopinti mondi degli Editori minori, dove spesso si riescono a soddisfare curiosità e gusti particolari. La piccola editoria infatti vive di specialità e rarità che in una società commerciale e massificata come la nostra non possono che far bene. Tanti gli incontri in programma, divisi per temi e percorsi letterari. Tra gli editori che amo particolarmente vi segnalo Il melangolo, Lithos Editori e Bibliosofica.
Buona passeggiata letteraria a tutti!

domenica 21 novembre 2010

Contro la violenza sulle donne. Il 25 Novembre e sempre.



Il 25 Novembre sarà la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Uno degli aspetti peggiori di questo cancro sociale, che tra l’altro è uno dei criteri a mio avviso per valutare la civiltà di una società, è la violenza domestica. Subdola e pericolosa in quanto privata e spesso non denunciata. La solitudine accresce il dolore e il dolore accresce il senso di solitudine. Noi in quanto comunità, dovremmo cercare di fornire a tutte le donne in queste condizioni, gli strumenti necessari a spezzare questo triste circolo vizioso.
La donna di cui vi offro un’immagine furtiva nelle righe che seguono, potrebbe essere uno tra i tanti casi reali, purtroppo.


Imparò a contare nel silenzio i gradini. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici. Imparò a cogliere il rumore della chiave stridente nella toppa. Imparò a scoprire se aveva bevuto oppure no solo dalla cadenza regolare dei suoi passi. Imparò a cogliere il suo umore dal modo in cui la chiamava.
Imparò a coprirsi il viso con le mani e a piangere in silenzio. Imparò a rimangiare le sue grida di dolore. Perché, perché, perché, perché. Maledisse il suo passato amore e bestemmiò sul suo anello. Imparò l’arte del trucco e della dissimulazione. Inventò scuse per nascondere la sua vergogna. Nel giro di un mese era caduta dalle scale e urtato contro un mobile “per caso”.
Conobbe l’odio, un odio forte, come l’amore che non c’era più. Le avevano tolto suo marito, ora al suo posto c’era un uomo che non riconosceva più, brutto nella sua violenza, cattivo nella sua crudeltà. Gliel’avevano tolto lentamente, partendo dal suo lavoro. Quello gliel’avevano tolto senza preavviso. Un giorno era tornato a casa e gliel’aveva detto con gli occhi bassi: “L’azienda chiude, sono fuori.” Poi si era chiuso lui, nella sua depressione e nel suo fallimento.
Lei si accorse che aveva iniziato a bere dalle bottiglie di scotch vecchie di dieci anni, che sparivano dalla vetrinetta della sala da pranzo. Imparò a non fare domande, pregando che tutto sarebbe passato. E invece non passò, anzi la depressione covò la sua rabbia. Esplose una mattina davanti al caffè che lei gli aveva preparato nell’ultimo sforzo d’amore. “Questo caffè fa schifo”. Non era mai accaduto che usasse quelle mani per farle del male. Quelle mani erano state delicate e rassicuranti, un dolce rifugio e una calda sicurezza. Si erano chiuse in abbracci, l’avevano sollevata e carezzata.
Invece quel giorno le usò per farle del male. Fu l’inizio della fine. La fine di un amore, la fine della complicità, la fine di tutto. La fine di lei come donna e soprattutto di lui come uomo.
E ora si trovava raggomitolata sul letto, le ginocchia livide, chiuse sul petto. Come una bambina che vuole proteggersi da un incubo, esausta e impaurita. Una mano sotto il cuscino, il volto inondato di lacrime, il labbro gonfio. Nell’altra mano il telefono, nella cornetta una voce sicura: “Pronto Polizia, mi dica…”

venerdì 19 novembre 2010

Oggi ho visto la Gioia, io disincantata spettatrice.



Oggi ho visto la Gioia. Si si, proprio quella con la G maiuscola. Se la scena fosse stata una fotografia l’avrei chiamata così: la Gioia. L’ho vista alle 12.25 negli occhi di una ragazza, in piedi su una panchina della stazione. Aveva i capelli ricci e neri, che uscivano da un cappello di lana. Muoveva la testa alzandosi sulle punte, cercando con frenesia tra la gente che scendeva dal treno. Un flusso di persone distratte, pensierose, sole le une rispetto alle altre, percorsi di vita paralleli che sfuggivano sfiorandosi.
Lei era lì in piedi su tutti che le passavano intorno, ma la Gioia ancora non c’era. C’era solo la concentrazione della ricerca, la speranza e l’attesa. La Gioia è arrivata dopo, è stata un’esplosione. Un salto. Tutto in pochi secondi. La Gioia s’è realizzata così, un salto e un incontro. Anzi, un salto per l’incontro. Lui è arrivato con dei bagagli pesanti, il volto provato forse dal lungo viaggio. Lei è saltata dalla panchina e in un secondo la Gioia l’ha presa. Li ha presi, persi in un abbraccio. Un abbraccio forte forte. La Gioia era lì fra loro, con loro e in loro. Pervadeva i loro visi sorridenti, di un sorriso pieno, caldo, sicuro, realizzato. Era nelle loro braccia strette, in quelle di lui che la sollevavano e in quelle di lei che lo stringevano forte. La Gioia era nella sorpresa di trovarsi, pur standosi già cercando. C’era la Gioia maturata nell’attesa, la pienezza di un desiderio realizzato.
Loro erano lì, mentre gli altri tiravano dritto. Erano in un abbraccio sospeso nel tempo, chiusi tra loro, nella certezza della loro felicità, nel godimento di loro stessi. Erano stretti, attaccati, uniti realmente.
Oggi ho visto la Gioia. E per un attimo un raggio della sua luce ha colpito anche me, riflesso momentaneo della loro Gioia, vissuta da fuori, come una scena luminosa.

Oggi ho visto la Gioia, io disincantata spettatrice.

mercoledì 17 novembre 2010

Il vento dell'esperienza




La stanza era molto luminosa quel pomeriggio. La luce filtrava attraverso le leggere tende bianche investendo ogni cosa e una leggera brezza si faceva spazio tra le rampicanti che carezzavano la ringhiera del balcone. Quando Virginia entrò, la trovò di spalle, seduta sulla sua poltrona preferita. Intorno a lei profumo di lavanda e di pulito. Ad Eva non servì voltarsi per riconoscere sua nipote e sentire la giovinezza che irrompeva nella stanza. Sempre guardando fuori dalla finestra, avvolta nel suo scialle cobalto, le disse con dolcezza: “Vieni Virginia, siedi accanto a me” indicando con la mano grinzosa il divanetto sotto la finestra. “Hai portato i bignè alla crema che ti avevo chiesto?”
“Si nonna, ma non dovresti mangiarli, lo sai”
“Senti bambina, a questo punto della mia vita non m’importa tanto allungare il brodo, quanto godermela” rispose Eva ridendo. Poi si drizzò sulla poltrona, due colpi ai braccioli quasi a voler dar inizio alle danze e disse decisa: “Virginia ti ho chiamato perché ho da dirti delle cose e voglio tu mi stia bene a sentire, quindi mettiti comoda e ascolta questa vecchia. Prima però passami un bignè.”
“D’accordo nonna, ti ascolto”
“Bene, ragionavo tra me e me, che se ancora posso fare qualcosa di buono è passarti le mie esperienze e non voglio andarmene all’altro mondo, ammesso che ce ne sia uno, senza prima darti qualche dritta. È chiaro che lo faccio più per stare in pace con la coscienza che per altro, però qualcosa te la voglio dire. Virginia a me è andata bene, anche se dovessi morire domani la mia vita l’ho vissuta e dio solo sa quante ne ho passate. Nessuno di noi sa quanta strada ha davanti a sé, ciò che può fare però è percorrerla al meglio. Non dimenticarti della tua felicità, è l’unica meta a cui devi ambire se vuoi impiegare bene la tua vita. Non sfruttare gli altri per raggiungerla. Non sfruttare mai nessuno. Scegli la verità, perché le bugie sono troppo faticose. Usa bene le parole, non sprecare fiato con chi non ne vale la pena, abbi il coraggio di dire quello che pensi. Prendi una posizione e assumitene le responsabilità. Non aver paura di seguire i tuoi istinti, siamo nella natura, che ci piaccia o no siamo animali con un po’ più di cervello. Struccati prima di andare a dormire, sempre. Essere donna è più faticoso di essere uomo, lotta ogni giorno affinchè non lo sia più. Guardati dai compromessi e non venderti. Bevi del buon vino, ubriacati e ridi fino a che non ne puoi più. Comprati un buon libro, deve sceglierti lui mentre passeggi tra gli scaffali. Bevi tanta acqua e assaggia ogni sapore. Buttati nell’amore, a capofitto, ma non dimenticare mai la tua dignità. Apri le spalle e sorreggi le delusioni, ce ne saranno tante, preparati a cadere dalle nuvole e a rialzarti. Occhio alla tua famiglia, è l’unica che non ti tradirà mai. Vai a vedere una mostra da sola, vai al cinema da sola, vai al mare d’inverno, meglio con la pioggia e rimani ad ascoltarlo. Piangi se ti servirà, urla, sbraita, perdi il controllo e riacquistalo. Lavora sodo e ne trarrai soddisfazioni. Non dare giudizi affrettati. Impara a fare una torta. Vesti il tuo corpo nel modo che più ti fa stare meglio. Cerca di dare un’occhiata intorno, guarda ai bisogni degli altri, perché sono anche i tuoi. Il diverso è un arricchimento, lo straniero fuori casa sei tu. Pensa, pensa tanto. Conosci, viaggia, impara. Prendi il buono delle persone e guarda il bicchiere mezzo pieno. Ti servirà. Ora passami un bignè per favore. E non alzarti che non ho finito”Virginia era incantata. Non pensava che quel pomeriggio si sarebbe rivelato così ricco. La nonna continuò a parlare, interrompendosi solo per ridere e sistemare il suo scialle cobalto. Virginia ascoltava e si sforzava di tenere a mente tutto, non voleva perdersi nulla. A vederle dalla finestra, queste due donne, l’una di fronte all’altra, l’una a gambe incrociate, l’altra ritta in poltrona, l’una in un fiume di parole, l’altra attenta discepola all’ascolto, si sarebbe potuto dire che la vita stava passando di là. Entrava con il vento attraverso l’edera, inondava la stanza come la luce e si spandeva nel dolce suono dell’esperienza che Eva passava a Virginia.

sabato 13 novembre 2010

Commissione Bilancio: i numeri distruttivi della Gelmini




Bastano tre numeri per farci incazzare: 245 800 e 100. Rispettivamente milioni di euro destinati a SCUOLE PARITARIE, Università pubblica e 5 per mille. Cara Gelmini, non riesci a vergognarti neanche un po’? Me lo chiedo ogni tanto, se quando torni nella tua camera, ti metti le pantofole Vuitton e ti guardi allo specchio per struccare quella faccia da strega, la senti un po’ di vergogna. Solo 800 milioni a un’università che arranca, che fa il taglia e cuci per sopravvivere, che non ha soldi per i ricercatori (tra l’altro il vaccino della Ensoli per l’HIV sembra funzioni, una bella notizia, condita però dalla paura che non ci saranno soldi per continuare la sperimentazione), mentre 245 milioni per le scuole paritarie. E solo 100 milioni all’associazionismo. Come a dire, vedetevela un po’ da soli. Primo giorno in commissione Bilancio alla Camera con queste proposte. Non ci sono soldi, perché così ci dicono, però passare da 130 milioni a 245 milioni alle scuole private ce la si fa. E certo, calpesti istruzione e servizi sociali, tanto che importa a Maria Stella e compagnia, cultura e sussidiarietà non valgono nei giochi di potere.

venerdì 12 novembre 2010

Di nuovo Pogge e altre riflessioni




Scrive Pogge, a proposito del materialismo storico di nonno Karl, a pag 7 del suo illuminante libro (“Povertà mondiale e dirittti umani” Editori Laterza 28 Euro):

“E’ innegabile che i nostri interessi e la nostra condizione materiale influenzino le nostre idee su quel che riteniamo moralmente saliente, sulle nozioni di giustizia ed etica che troviamo attraenti e interessanti e sulle riforme che riteniamo realizzabili oppure utopiche. Consideriamo se sia ingiusto negare l’assistenza sanitaria di base ai cittadini perché non possono pagare. È più probabile che un povero trovi la questione più importante di un ricco. (…) La condizione materiale e gli interessi personali influenzano anche i giudizi concreti che ciascuno trae dai propri valori morali. Almeno inconsciamente le persone tendono a interpretare i loro valori morali a proprio favore (…)”

Questione questa, a dir poco dibattuta e controversa. Vorrei provare a lasciare sullo sfondo l’ambito morale, laddove per morale intendo l’approvazione o meno di comportamenti, di norme comuni, in base a un criterio etico condiviso da un gruppo sociale. Pogge infatti mi da lo spunto, nel mio flusso di coscienza quotidiano, per soffermarmi su un problema diverso: quello della felicità, intesa aristotelicamente come realizzazione della propria vita. Per onestà, diciamo intellettuale, devo mettere in chiaro che approvo l’idea che la morale di un individuo, o meglio, di un gruppo, sia il risultato, oltre che di altri fattori, anche della posizione socio-economica che quell’individuo o gruppo si trova a ricoprire. Spingendomi oltre, e qui nonno Karl mi strizza l’occhiolino, credo fermamente che la condizione socio-economica di un individuo sia uno dei fattori principali per la realizzazione della sua felicità. Sia ben chiaro, non voglio intendere banalmente ricchezza=felicità o ancor peggio elevazione sociale=felicità. Voglio prendere il tutto da un’altra prospettiva. Cioè non penso assolutamente che la ricchezza comporti felicità, ma penso che la non-povertà, non-indigenza o semplicemente una condizione di moderato benessere, siano un ostacolo in meno al raggiungimento della felicità, intesa sempre come realizzazione dell’uomo nella società che conosciamo. Se continuo il mio ragionamento, di nuovo sottolineando come per felicità intendo realizzazione personale a tutto tondo, che coinvolga rapporti umani, possibilità creativa, libertà espressiva, di movimento, di conoscenza, viene da sé che, nella nostra società, tutto ciò è possibile o meglio, è facilitato da una condizione economica non disagiata.
E adesso arrivo al punto. Credo che la vita a nostra disposizione sia una o meglio, questa di certo ce l’abbiamo. E non concepisco l’idea che una persona possa trascorrere la sua vita nel sacrificio e negli stenti, o semplicemente debba vivere lo stress economico che non gli permette di fare ciò che vorrebbe o di sviluppare se stesso in modo adeguato. Qui i teorici dei “due cuori e una capanna” potrebbero snocciolarmi esempi su esempi di felicità nate nel sacrificio e ci credo pure perché le ho conosciute e le apprezzo ancor di più. Non credo che sia impossibile sviluppare e realizzare se stessi felicemente anche con il costante peso del denaro (o meglio del non denaro), credo che però non sia giusto che un uomo o una donna debbano passare il proprio prezioso tempo spaccandosi la schiena e sottraendo tempo ed energie alla realizzazione di loro stessi. Mentre una ricca signora imbellettata e magari mantenuta dal ricco marito può dedicarsi alla pittura, leggere i suoi libri preferiti e spalmarsi un’antirughe costosissimo prima del tè con le amiche.

giovedì 11 novembre 2010

Un profumo, un ricordo




Passeggiando assorta nei miei pensieri e isolata dal mondo grazie a quella meravigliosa invenzione che è l’i-pod, oggi ho avuto un flash. Un profumo noto, conosciuto, familiare, ha superato il limite imposto dal mio raffreddore e mi ha colpito. Era una signora, di cui ho visto solo la schiena. È passata a qualche metro da me e in un istante il suo profumo mi ha portato alla mente la mia maestra delle elementari, donna bellissima e austera e con lei, il ricordo dei sentimenti a questa figura associati.
Questo fatto, apparentemente insignificante, mi ha fatto tanto pensare. Certo, non è la prima volta che succede. Spessissimo sentendo un odore la mia mente vaga e si collega a situazioni vissute, a persone incontrate, ad attimi del passato. Mi ha sempre affascinato l’idea che un impulso sensoriale, tra l’altro involontario, quale è l’olfatto, possa provocare un ping pong di riferimenti mentali e scatenare la tempesta del ricordo.
Ma la cosa che mi stupisce anche di più è che, in determinate circostante e concentrandomi un po’, io, come penso chiunque, riesca a ricordare un profumo, al punto di riuscire a sentirlo.
Nella vita mi muove un istinto pragmatico, scientifico e causale, perciò credo che la ragione di tutto ciò sia biologica, fisica. E navigando in cerca di riferimenti che potessero aiutarmi a sbrogliare la matassa, mi sono imbattuta in una pubblicazione che spero sia illuminante. Si chiama “Il naso intelligente”, un libro scritto da Rosalia Cavalieri, docente di Semiotica e Teoria della comunicazione. L’editore è Laterza ed è uscito nel 2009. Tra l’altro mi pare di ricordare che, appena uscito, fosse stato consigliato da Repubblica.
Provvederò a comprarlo al più presto sperando che possa soddisfare la mia curiosità, certa che conoscere le ragioni scientifiche per cui un fenomeno accade, non limita in alcun modo il fascino di quel fenomeno, al contrario lo accresce.

lunedì 8 novembre 2010

Dall'altra parte del mondo



Leggendo Thomas Pogge, “Povertà mondiale e diritti umani” (Editori Laterza, 28 euro) sono rimasta sconvolta e sconfortata. Di quello sconforto che solo i numeri sanno dare.


E per condividere la mia profonda tristezza vi riporto i passi salienti di ciò che ho letto:

“Nel 2005 il 21% di tutti gli esseri umani viveva al di sotto della linea della povertà estrema.(…) Si stima che il 15% della popolazione mondiale soffra di denutrizione cronica, che il 13% non abbia accesso all’acqua potabile, che il 37% non abbia accesso ai servizi sanitari di base. Circa il 14% non ha una dimora; circa il 30% non ha accesso ai farmaci essenziali e il 24% non ha energia elettrica; circa il 16% degli adulti è analfabeta e il 14% dei bambini di età compresa tra i 5 e i 17 anni è composto da bambini-lavoratori.”
“ (…) Le morti ordinarie per fame e malattie prevedibili sono state 300 milioni, soprattutto bambini, nei 18 anni dalla fine della guerra fredda. I nomi di queste persone, se elencati nello stile Vietnam Veterans Memorial, coprirebbero un muro da Detroit a New York, o da Vienna a Roma: lungo 480 miglia.”

Pogge, nel suo interessantissimo saggio, affronta il problema della povertà mondiale da un punto di vista morale, domandandosi perché i cittadini degli Stati ricchi dell’Occidente non lo trovino moralmente preoccupante.
Lo consiglio fortemente.

domenica 7 novembre 2010

Tratto da "Eva Luna racconta" di Isabel Allende




"Ti toglievi la fascia dalla vita, ti strappavi i sandali, gettavi in un angolo l'ampia gonna, era di cotone, mi sembra, e scioglievi il nodo che ti stringeva i capelli in una coda. Avevi la pelle d'oca e ridevi. Eravamo talmente vicini che non potevamo vederci, assorti entrambi in quel rito urgente, avvolti nel calore e nell'odore che emanavamo insieme. Mi aprivo il passo per le tue vie, le mie mani sulla tua vita protesa e le tue impazienti. Sfuggivi, mi percorrevi, mi scalavi, mi avvolgevi con le tue gambe invincibili, mi dicevi mille volte vieni con le labbra sulle mie. Nell'attimo estremo avevamo un bagliore di completa solitudine, ciascuno perduto nel proprio abisso rovente, ma subito risorgevamo al di là del fuoco per scoprirci abbracciati nel disordine dei guanciali, sotto la zanzariera bianca. Ti scostavo i capelli per guardarti negli occhi. Talvolta ti sedevi accanto a me con le gambe raccolte e il tuo scialle di seta su una spalla, nel silenzio della notte che iniziava appena. Così ti ricordo, in quiete."

mercoledì 3 novembre 2010

Al peggio non c'è mai fine



Mi chiedevo, qualche riga fa, cosa servisse ancora. Non ho fatto in tempo a darmi risposta, perché ci ha pensato il “nostro” Presidente-vergogna. Ha pensato bene di togliersi dall’imbarazzo, sprofondandoci ancora di più. “Meglio guardare le belle ragazze che essere gay”. Quando l’ho letto non volevo crederci, ho dovuto sentirlo e guardarlo con i miei occhi. Ha detto proprio così. E allora penso che al peggio non c’è mai fine, se il Capo del Governo, che trasforma una sede pubblica in un ritrovo orgiastico e fa passare nepotismi come atti di solidarietà, legittima le sue azioni con battute omofobe. Sale su un piedistallo, con la sua faccia di bronzo e davanti al microfono sputa in faccia a mezza Italia. Sì perché con una battuta del genere, che tutto fa tranne che ridere, sputa in faccia in primis a chi ha un orientamento sessuale diverso dal suo, poi a tutte le “belle ragazze” che si diverte a guardare, come oggettistica d’ornamento per le sue stanze da imperatore pervertito e poi a chi non è soddisfatto del proprio Paese e crede ancora, ingenuo, che i politici dovrebbero fare qualcosa per cambiarlo, invece di passare le notti in festini e baccanali.
Ora vorrei fare una cosa. Andare casa per casa da tutti quei nostri colleghi elettori che hanno permesso questo scempio. E chiedere loro cosa ne pensano. Mi parleranno del fatto che non c’è un’alternativa, che la sinistra sopravvive in pochi rari esemplari, come Nichi Vendola, arroccato come una stella alpina sul pendio in tempesta. Mi parleranno da qualunquisti: “Sono tutti uguali, non ti credere…”. Mi parleranno di montature e finzioni. Mi diranno che “almeno lui qualcosa l’ha fatto”. E io rimarrò in silenzio, impietrita sui loro usci, paralizzata dal rancore e dalla disillusione. Chiuderanno le porte e torneranno alle loro vite, così come stasera il Pres-vergogna tornerà nella sua villa, chiuderà le porte e, portafoglio alla mano, si barcamenerà in qualche patetica lezione orale. E non mi riferisco ai soliti discorsi stavolta.

lunedì 1 novembre 2010

Un Premier-vergogna e un Paese che non s'indigna



Cosa serve ancora? Per scatenare l’indignazione e la vergogna non basta neanche
questo? Tra nepotismo, sessismo, bugie e gossip nazionale, quante altre Ruby, D’Addario, Noemi serviranno? La nostra più alta figura governativa dopo il Presidente Napolitano è un uomo che si barcamena tra festini notturni in luoghi istituzionali, telefonate salva-finte-parenti di capi di Stato e, nel mezzo, qualche rassicurazione ai ribelli campani, sommersi dai rifiuti.
Il problema, tuttavia, non è questo. Questo è solo un aspetto. L’aspetto di un Paese malato, lo stesso Paese che fino alla scorsa settimana passava le giornate a domandarsi come sarebbe finita la mini-fiction sulla povera Sarah. È un Paese che non si ribella, che anzi appoggia un’etica della corruzione, del favoritismo, del “io ti do il posto, tu che mi dai”. E quanto è difficile, ogni mattina, svegliarsi e affrontare una giornata di lavoro, di studio, con questi presupposti, con questa sfiducia nella propria Nazione.
È finito il tempo del Patriottismo, ed è meglio così. Ma non c’è più interesse nemmeno nel salvaguardare, un minimo, l’immagine di noi Italiani nel mondo. Si, perché il nostro Presidente del Consiglio dovrebbe essere il nostro primo rappresentante. E, scusate, ma non mi sento rappresentata nemmeno un po’ quando se ne va in giro per il mondo a snocciolare barzellette al limite dell’offensivo.
Beh, il peggio è che dovremo arrenderci, tutti noi giovani che crediamo nel lavoro, nello studio, nei sacrifici, nel rispetto del proprio corpo e della propria persona. Dovremo arrenderci al sistema, o rinunciare ed emigrare. E questo, sia ben chiaro, non per colpa del nostro Signor B. Ma per colpa di un Paese che si è già arreso e non s’indigna più, non si ribella, per quante Ruby, D’Addario, Noemi possano scoprirsi domani.

domenica 31 ottobre 2010

Facebook: un mondo alternativo.



Non è una novità del nostro secolo, né del nostro decennio, l’ambizione dell’uomo ad andare oltre la realtà quotidiana, sovrapponendone una immaginaria o fondata su categorie alternative. Il fenomeno religioso è l’esempio per eccellenza di come sia necessità di ogni uomo quella di inquadrarsi in un sistema ulteriore, in un progetto, in un disegno, in una realtà immaginata diversa rispetto a quella che si vive effettivamente. Calando il discorso nella nostra società, questa tendenza si evidenzia, ad esempio, nell’adesione a mode o costumi diffusi ormai su scala globale. L’ambizione di inserirsi in sistemi basati su categorie alternative e condivise, si concretizza nell’adesione del singolo ai vari reticoli che oggi compongono l’immaginario della società.
E quando sento parlare di fenomeni di impatto globale, in questo caso facebook, non posso che spiegarne il successo in questo modo. Non è sufficiente, a mio avviso, soffermarsi sull’utilità primaria della rete Fb, cioè quella di “Connettersi e rimanere in contatto con le persone della propria vita”, come detta lo slogan della homepage. Certo, questo della comunicazione rapida, gratuita, che vince spazio e tempo, è un grande pregio della rete Fb. Ma non è una sua prerogativa. Da anni il web è tempestato di chatrooms, forum e programmi da scaricare facilmente per “rimanere in contatto” con altri utenti. Primo fra tutti Messenger, chat arricchita da una selezione preventiva dei contatti e varie opzioni per rendere più stimolante la conversazione.
Facebook quindi, se si limitasse a questo, sarebbe un fenomeno comune, nulla di nuovo. In realtà, secondo me, la forza di questo Social Network sta tutta nell’aver saputo risvegliare la tendenza comune delle persone a inserirsi in un contesto diverso dalla realtà solita, quotidiana. Nello specifico, Facebook è proprio la concretizzazione del sogno di un mondo parallelo, legato certo al quotidiano, ma svincolato il tanto che basta per farci rapportare con gli altri in maniera “pensata”. Cioè a dire, nella mia vita reale non posso scegliere come mostrarmi, o magari posso agire limitatamente per costruire l’immagine che gli altri si fanno di me, mentre su Facebook ho questa potenzialità. Ho la mia finestra sul mondo che mi permette di aggiungere, togliere, migliorare, radicalizzare aspetti di me proponendo quindi agli altri un “ME SCELTO”, non più spontaneo.
Si potrebbe ribattere che, in ogni caso, sia nella rete, che nella vita quotidiana, si è sempre artefici della propria impressione sugli altri. La differenza, secondo me, sta nel circolo vizioso che si viene a creare laddove posso scegliere, ponderatamente, COSA mostrare di me agli altri, COME mostrarlo, consapevole di come può essere percepito. Mentre nella vita di tutti i giorni è molto più difficile, se non impossibile. L’uno è un meccanismo statico quasi, di scrittura, lettura e ricezione. L’altro è un meccanismo dinamico, che coinvolge un’infinità di altri fattori e non può in questo modo essere controllato a priori.
Insomma, il successo di Fb, per quello che mi riguarda, sta tutto nell’aver saputo offrire un mondo alternativo rispetto a quello reale, con AMICI, GUSTI, IMMAGINI che si possono scegliere a tavolino. E proprio in questa misura mi sento di rigettarlo, non nella veste di mezzo di comunicazione, ma come vetrina alternativa alla vita reale.

venerdì 29 ottobre 2010

Lasciati



Nel greto della nostra intimità
a volte le parole si prosciugano
e il fiato non ha via d'uscita
momenti che si perdono così
un libro aperto quando viene il buio e noi
colpevoli di troppo aridità

lasciati guardare un po' più a fondo - finché si può
senti come tremo perchè sento
che tutto finisce qui
lasciati guardareun po' più a fondo - finché si può
un ultimo saluto al nostro tempo
e tutto finisce qui

e' inutile comprendere perché
a volte i pensieri si confondono
e mischiano speranze e realtà
segnali che si perdono così
un radar pronto quando chiude il cielo e noi
colpevoli di troppa oscurità.

domenica 17 ottobre 2010

Pensieri dietro la linea gialla

Moltitudine di gente, alle sette e ventitrè di un giovedì di novembre, aspettando un regionale per Roma dietro la linea gialla.
Marco, 22 anni, studente appoggiato al muro con un libro in mano: “…Speriamo che non mi chieda quello. Cavolo, di tante cose possibile che mi debba chiedere quello. No, ma tanto non lo passo. Poi con l’assistente, figurati. Devo chiamare Sara, o la chiamo dopo? Le mando un sms và, che quella starà più agitata di me…”
Umberto, 45 anni, seduto. Valigetta sulle gambe, ‘Il giornale’ sulla valigetta, l’auricolare nell’orecchio: “Si, Massimo, Umberto, buongiorno. Farò tardi stamattina, fai una cosa, lasciami i documenti sulla scrivania. Si, si, pure quelli della riunione di oggi, ci do un’occhiata appena arrivo. Ah, ma la cena poi com’è andata? Si, i soliti discorsi immagino. Vabè, ci vediamo dopo, pranziamo insieme? Ok, ok ciao…”
Silvia, 26 anni. Cappello in testa, occhiali scuri. Trolley. “Lo spazzolino, cavolo, la cosa essenziale ho dimenticato. Mamma che sonno. Se perdo l’aereo per questi ritardi di merda li denuncio. Primo giorno di lavoro, arrivare in ritardo è da pazzi. Era meglio se partivo ieri, dovevo dare retta a mia madre. Carino quello… Speriamo che ci sia posto a sedere. Almeno ripasso qualcosa… Ma la carta d’imbarco dove l’ho messa?! Ah eccola, devo ricordarmi che sta qui, nella zip interna. Interna Silvia, ricordati.”
Roby e Ale, 20 anni, zaino sulle spalle. Una di fronte all’altra. “Guarda, il corso di letteratura francese è tranquillissimo. Lei anche mi sembra una in gamba, quindi penso di darlo già a gennaio. Tu inglese lo dai ora, sessione invernale, o direttamente a giugno?”
“Io è già tanto che riesca a dare semiotica e filosofia del linguaggio. Non riesco proprio a concentrarmi quest’anno. Poi Lele mi sta facendo passare le pene dell’inferno. C’ha un sacco di problemi a casa e si sfoga su di me, e io sempre zitta ad assecondarlo per cercare di stargli accanto. Però ogni tanto mi verrebbe voglia di mandarlo a quel paese, lui e tutti i suoi problemi. Perché i problemi ce li ha solo lui…”
Rosy, 47 anni, vestito, calze doppie e tacchi a spillo, cammina con passo deciso. “Ma se chiedo il divorzio? Non posso andare avanti così. Una si spacca la schiena, fa i sacrifici, per cosa poi?! Oggi ho il calcetto, dai, ti porto un’altra sera a vedere quello spettacolo a teatro, promesso. Calcetto un corno, lo spettacolo finiva stasera Gianni, lo sai da una settimana. Io vengo sempre dopo tutto. Dopo il calcetto, dopo il tuo lavoro, dopo tua madre. Eh, ma adesso basta. Io ho il diritto di essere felice. Ma sto cazzo di treno quando arriva?”
Yamina, 16 anni, gonna lunga, capelli raccolti in due trecce sottili, sandali consunti. Avanza tra la gente, mani giunte a coppa: “…Un aiuto senora, per mangiare. Un aiuto senorina, per favore. Grazie grazie, buona giornata, grazie.. Un aiuto senore, per favore…”
Stefano, 30 anni. Luigi 32. “Ste cazzo di zingare, non se ne può più. Che poi dico io, non sono capaci a cacciarle dalle stazioni? Uno aspetta il treno e deve essere pure importunato.”
“Ma tanto ormai, qua ognuno fa come gli pare. Come quelli ai semafori. Più gli dici No e più insistono. Io li ammazzerei tutti guarda, loro e quei rumeni pure. Non c’è lavoro per noi, lo vogliono loro?! E mi venissero a dire che sono razzista…”
Jack, 22 anni, zaino in spalla. Cuffie. Sacco a pelo e Bob vicino, meticcio di 3 anni. “…I’m on it, get on it. The troops are on fire… …love this song. 30 euros, only 30 euros. I have to look for a job in Rome. Now. I can’t came back home. It’s too late...”
Ale, 23 anni, di corsa. “E pure stamattina mi tocca correre. Dai dai, che ce la faccio. Perché ho spento la sveglia, perché. Eccolo il treno. Cazzo. Scusate, oh scusi. Scusa, si grazie. Quale porta.. questa. Ok. Sento il cuore che scoppia. Sto per svenire, stamattina sicuro svengo. Ecco, uno due tre. No. E anche oggi è andata. Wow.”
Marta 33 anni. “ No, mannaggia. È appena partito!!! Ok, aspettiamo l’altro. Che palle. Vabè, nel frattempo faccio colazione. Cornetto integrale, rigorosamente. E caffè amaro. Stavolta devo farcela. Già tre chili in meno. Che bello. Ma che vita di merda.”
Ugo, 35 anni, barista. “ Ecco la solita. Cornetto integrale e caffè senza zucchero. Ma che faccia triste poveretta.”

sabato 9 ottobre 2010

La ragazza appoggiata allo stipite e l'Università privata


Se vogliamo trovare un lato positivo nel trasporto ferroviario regionale, è che a causa degli spazi esigui a disposizione nelle ore di punta, è più facile parlare con perfetti sconosciuti e condividere un pezzo di giornata. Sarà che la sofferenza di stare in piedi pigiati gli uni contro gli altri, oltre al nervoso, porta con sé un po’ di afflato umano, sarà che non si riesce a leggere perché il libro diventa un ingombro, fatto sta che si chiacchiera più facilmente.
L’altro giorno, per l’appunto, tornando da Roma con il regionale delle 12.45, dopo un’estenuante mattinata PERSA tra le reti della burocrazia della Sapienza, ho incontrato uno studente che conoscevo e che, come me, aveva il dente avvelenato per l’inefficienza del sistema universitario. Guarda caso, tra me e lui, infilata affianco allo stipite della porta, quasi a formare un triangolo simbolico voluto dal destino, c’era una ragazza che ascoltava interessata.
La frase con cui la signorina ha esordito è stata: “Beh, se è così inefficiente e dispendiosa in termini di tempo e energie, perché non fate come me e passate all’università privata?”
Non so perché, ma la mi diplomazia fortunatamente non mi ha abbandonato, sopportando il caldo e la mattinata infernale e ho deciso di affrontare l’argomento con calma e tranquillità. Anche perché stavamo ancora all’altezza di Pomezia (e la tratta Roma-Latina dura una quarantina di minuti).
Sottolineo che il mio intento non era, e non è, quello di puntare il dito contro coloro che scelgono la privata perché se lo possono permettere o perché ritengono sia meglio. Però ho colto la palla al balzo per affrontare un discorso che mi sta particolarmente a cuore. E cioè il tentativo del governo (e dei governi), ormai quotidiano e naturale, di screditare l’Università pubblica, finanziando le private e facendo dello studio e della formazione una merce da comprare e da vendere.
Non biasimo chi, come quella ragazza appoggiata allo stipite, fa la scelta utile di investire nel proprio futuro, visto che il sistema richiede questo. Mi incazzo però con il sistema. E con quelli, proprio come quella ragazza appoggiata allo stipite, che lo difendono perché ci stanno dentro e, in fin dei conti non è così male.
Punto primo: il sapere non può stare in mano ai privati o al primo imprenditore avveduto, per una questione di principio. Sarò all’antica? Lo sono. L’educazione è una cosa seria, la cultura è ciò che ci permette ancora di essere liberi, consapevoli della nostra condizione di cittadini e del nostro ruolo nel mondo. Punto secondo: proprio per questo, deve essere data a tutti la stessa possibilità di partecipare e di godere della cultura a disposizione in un preciso momento storico. Punto terzo: se la formazione e l’educazione sono private, nasce un conflitto inevitabile tra il sapere offerto a tutti nello stesso modo e il sapere d’elite che solo il privato può permettersi di offrire. Per fare un esempio pratico: un prof straniero, eccellente, preparato, un pezzo grosso insomma, decide di venire in Italia per tenere una conferenza. Con tutte le attenuanti e le eccezioni del caso, pensate che preferirebbe farlo per una bella sommetta con tanto di autista privato o per il rimborso spese che il ricercatore della Sapienza o il professore di turno che l’ha invitato possono permettersi?
Quello che mi irrita più di tutto, è l’idea che la tipa dello stipite continuava a ripetere: “Beh il privato funziona meglio, ci tiene di più, la pubblica va a rotoli.” Ma porca miseria, che argomento è? Scelgo il privato perché la pubblica TANTO non funziona. È come dire: ho la doccia rotta, vado dal vicino che c’ha la Jacuzzi, perché tanto se la riparo si rompe di nuovo e poi la mia c’ha le maioliche scheggiate.
Per chiudere in bellezza (nel frattempo il treno superava Cisterna) vogliamo parlare dei finanziamenti PUBBLICI alle università private? E la tipa: “Che io sappia, fino al 90% è tutto privato”.
Ma anche quel 10%, ma anche se fosse lo 0,001% pubblico, sarebbe comunque uno schifo dico io. A La Sapienza quest’anno hanno ridotto i corsi da 23 a 11, accorpando e facendo un taglia e cuci da record. I ricercatori stanno in mezzo alla strada. Nella mia facoltà di Filosofia fino a due anni fa c’erano quattro corsi di Estetica, tutti molto frequentati. Ora li hanno ridotti. No money, no lessons.
E tu, cara la mia tipa dello stipite, mi vieni a dire che “solo il DIECI PER CENTO è finanziato dai soldi pubblici”. Scusa, rimangio tutto: Io non ho più il corso di Estetica musicale, però magari quel DIECI PER CENTO statale vi serve per le lavagne al plasma.

giovedì 7 ottobre 2010

Blocco didattico contro ddl Gelmini a La Sapienza

La Sapienza si mobilita. In particolare le facoltà di Lettere e filosofia, Filosofia, Studi orientali e Psicologia hanno scelto l’arma del blocco della didattica per il mese di ottobre. Questa decisione, votata quasi all’unanimità il 21 settembre scorso è l’ultimo dei disperati tentativi di porre un freno al “perverso processo di aziendalizzazione e depauperamento dell'Università di Stato in atto”, come si legge nel testo della mozione.
Accanto alla sospensione della didattica, altre facoltà hanno scelto vie di protesta meno drastiche ma tutte hanno reagito all’evidente impossibilità, sottolineata dallo stesso Rettore Luigi Frati, di dare inizio all’anno accademico nelle attuali condizioni finanziarie in cui il Governo mantiene l’Università pubblica.
Al centro della polemica soprattutto i tagli indiscriminati alla ricerca. Tagli che risultano ancor più gravi perché, allargando l’orizzonte a un’ottica di progresso nazionale, costituiscono un handicap per lo sviluppo, non solo culturale, ma economico del nostro Paese.
Mentre La Sapienza è sul piede di guerra, la maggioranza di governo cerca di salvare l’incriminato decreto Gelmini, spingendo perché l’approvazione avvenga il prima possibile, magari anticipando la data del 14 ottobre, in cui il ddl è previsto in aula.
Eppure lasciando sullo sfondo le manovre politiche, ciò che emerge dal punto di vista della protesta, sono due elementi: da un lato la mobilitazione effettiva dell’università, in particolare di alcune facoltà, arrivando alla decisione drastica della sospensione della didattica. Dall’altro però la triste consapevolezza della poca risonanza che questa protesta sta avendo a livello mediatico.
Sfogliando i giornali, si parla sì di proteste studentesche, in maniera vaga e poco incisiva, ma l’attenzione è tutta focalizzata sulle manovre del Governo e al massimo sulla voce dei Finiani che portano avanti timidi tentativi riformatori del decreto. Non si parla di opposizione, ma ancor meno di mobilitazione popolare.
Se tra le mura de La Sapienza l’idea dominante è quella di aver messo un freno importante all’approvazione del decreto, dall’altra parte, tra la gente comune, informata da tg e giornali, neanche si sente parlare di questa protesta.
È quindi riconfermata l’amara crisi che sta vivendo la libera informazione in Italia. La stridente opposizione tra i problemi reali, in questo caso la riforma universitaria e l’opposizione popolare che sta trovando, e l’informazione veicolata di mass media corrotti.
Tornando quindi nello specifico alla decisione del blocco della didattica, viene da chiedersi quanto sia efficace. Dal punto di vista pratico significa mettere in serie difficoltà i percorsi di studio degli studenti, e solo di alcuni, perché non tutte le facoltà hanno scelto l’arma del blocco. Se a questo si aggiunge la difficoltà di essere incisivi e di squarciare il velo di Maja della comunicazione nazionale, viene da chiedersi se non sarebbe preferibile adottare forme differenti di protesta. In particolare forme che puntino alla sensibilizzazione nazionale, che significherebbe perdita di consensi per la maggioranza e conseguente impatto politico. Il blocco della didattica infatti, è sì un disservizio, ma lo è solo per gli studenti.
Con questo non nego la necessità assoluta di opporsi al decreto che lentamente e perversamente tenta di uccidere l’Università pubblica, con qualsiasi forma di protesta, purchè animata da una ratio che tenga conto della situazione del Paese e del modo in cui queste proteste vengono percepite dall’opinione pubblica.
Il fondamento della legge, scriveva Benjamin Constant, filosofo e politico liberale di inizio Ottocento, è sempre extragiuridico. Per cambiare la legge, è necessario quindi cambiare prima l’opinione pubblica che approva e sostiene quella legge.
Arduo compito, qui in Italia, aggiungo io. Dove l’opinione pubblica, più che approvare o disapprovare, semplicemente si lascia trascinare dagli eventi, rifugiandosi in luoghi comuni e arrendendosi alle notizie filtrate dai tg.
Per il momento non ci resta che aspettare, nello specifico che il ddl arrivi in aula.
Lezioni sospese, speriamo almeno che sia davvero utile a salvare l’Università pubblica.

martedì 17 agosto 2010

"Per passare? Un fiorino..." Ecco la nuova proposta del Fasci-sindaco Alemanno


Oggi mi hanno dato del grillo parlante. E la cosa, devo dire, non mi dispiace.
Salto fuori e dico la mia.
Ed è proprio così che riapro il mio blog. Dopo più di un mese di assenza e silenzio, torno a dire la mia qui sopra.
Lo spunto me lo ha dato l'ultima trovata del Fasci-sindaco Alemanno. La sua nuova proposta, ancora una volta anticostituzionale, è quella di porre una tassa ai cortei.
Detto brutalmente: vuoi manifestare? Devi pagare per farlo. Non importa che tu sia associazione, sindacato o partito. Per occupare il suolo pubblico, non solo devi far richiesta, dare preavviso, ricevere il nullaosta. Da oggi, potresti addirittura dover pagare una tassa.
Il Fasci-sindaco ha giustificato la folle idea con l'osservazione che, per ogni manifestazione, il Comune è costretto a sborsare soldi per l'organizzazione, la sicurezza, le pulizie. Questo c'è dalla sua parte. Dalla parte di tutti gli altri, di tutti i cittadini che nella loro vita hanno partecipato, parteciperanno o seplicemente approveranno una manifestazione, c'è l'Art. 17 della Costituzione: "I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi".
E per quanto riguarda l'aspetto economico, che sembra interessare più di tutti Alemanno, si può obiettare che dovrebbe essere lo Stato, lo stesso Stato che vigila sulla libertà di manifestazione, a coprire le spese necessarie a garantire tale diritto.
Una proposta fuori dal mondo quella di Alemanno. O forse, una proposta che non fa che accodarsi alle altre numerose che in questi mesi stanno minando seriamente i fondamenti della nostra Repubblica.
Basta pensare alla famigerata "Legge bavaglio" che da un lato colpisce la stampa, dall'altro limita direttamente lo strumento prezioso delle intercettazioni.
In tutto ciò, io continuo ad aspettare qualche intervento della presunta opposizione. Non so, una manifestazione, ma anche un corteo, non penso di chiedere molto. Tutto questo, è ovvio, quando Bersani finirà di spalmarsi la crema solare.
Nel frattempo i fasci-sindaci e i ministri dell'In-giustizia, facciano pure il loro comodo, l'estate è lunga.

sabato 3 luglio 2010

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Il sole dietro la collina

Ci sono due tipi di dolore: il primo è quello che ci procurano gli altri, il secondo è quello che ci auto procuriamo. Nel primo caso per quanto forte sia il dolore, sarà sempre indipendente dalla nostra volontà, perciò meno intenso, perchè porta alla rassegnazione.
Il secondo dolore invece, essendo causato dalla nostra volontà, può diventare lacerante, perchè investe anche la parte più razionale e al contempo emozionale di noi: la facoltà di scelta. Siamo condannati a scegliere, diceva Sartre. E quando una scelta è troppo dolorosa da portare avanti, il nostro istinto di sopravvivenza ci dice che è sbagliata. Spesso però, per quanto una scelta sia lacerante, dolorosa, sofferta, ingiusta, è necessaria. E può essere necessaria per noi o per qualcun altro.
L'unica speranza che ci fa continuare a perseguire la nostra scelta, in questi casi, è quella di vederla trasformarsi in felicità, per noi e per gli altri.
Così come l'unica speranza che ci fa prendere medicine disgustose è il fatto che ci possano far stare bene.
Quindi, nel dolore atroce e nel limbo dell'insicurezza, mi aggrappo con tutte le mie forze a questa speranza.
Spero con tutta me stessa che dietro la collina ritrovi il sole, il mio sole però, l'unico che può scaldarmi e illuminare le mie giornate.
E se lo ritroverò il mio sole, se lo ritroverò in fondo al mio cuore, correrò verso di lui, a costo di essere persuasa dal suo fuoco.
La collina ora però va scalata. E ci vuole tanto coraggio e forza per non mollare la presa.

domenica 13 giugno 2010

The big Kahuna

Goditi potere e bellezza della tua gioventù. Non ci pensare.
Il potere di bellezza e gioventù lo capirai solo una volta appassite.
Ma credimi, tra vent’anni guarderai quelle tue vecchie foto.
E in un modo che non puoi immaginare adesso.

Quante possibilità avevi di fronte
e che aspetto magnifico avevi!

Non eri per niente grasso come ti sembrava.

Non preoccuparti del futuro.
Oppure preoccupati ma sapendo che questo ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un’equazione algebrica.

I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente, di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio.

Fa’ una cosa ogni giorno che sei spaventato: canta!

Non essere crudele col cuore degli altri.
Non tollerare la gente che è crudele col tuo.

Lavati i denti.

Non perdere tempo con l’invidia: a volte sei in testa, a volte resti indietro.
La corsa è lunga e, alla fine, è solo con te stesso.

Ricorda i complimenti che ricevi, scordati gli insulti.
Se ci riesci veramente, dimmi come si fa…

Conserva tutte le vecchie lettere d’amore,
butta i vecchi estratti-conto.

Rilassati!

Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita.
Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita.
I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.

Prendi molto calcio.

Sii gentile con le tue ginocchia,
quando saranno partite ti mancheranno.

Forse ti sposerai o forse no.
Forse avrai figli o forse no.
Forse divorzierai a quarant’anni.
Forse ballerai con lei al settantacinquesimo anniversario di matrimonio.
Comunque vada, non congratularti troppo con te stesso,
ma non rimproverarti neanche: le tue scelte sono scommesse,
come quelle di chiunque altro.

Goditi il tuo corpo,
usalo in tutti i modi che puoi,
senza paura e senza temere quel che pensa la gente.
E’ il più grande strumento che potrai mai avere.

Balla!
Anche se il solo posto che hai per farlo è il tuo soggiorno.

Leggi le istruzioni, anche se poi non le seguirai.
Non leggere le riviste di bellezza:
ti faranno solo sentire orrendo.

Cerca di conoscere i tuoi genitori,
non puoi sapere quando se ne andranno per sempre.
Tratta bene i tuoi fratelli,
sono il miglior legame con il passato
e quelli che più probabilmente avranno cura di te in futuro.

Renditi conto che gli amici vanno e vengono,
ma alcuni, i più preziosi, rimarranno.
Datti da fare per colmare le distanze geografiche e gli stili di vita,
perché più diventi vecchio, più hai bisogno delle persone che conoscevi da giovane.

Vivi a New York per un po’, ma lasciala prima che ti indurisca.
Vivi anche in California per un po’, ma lasciala prima che ti rammollisca.

Non fare pasticci con i capelli: se no, quando avrai quarant’anni, sembreranno di un ottantacinquenne.

Sii cauto nell’accettare consigli,
ma sii paziente con chi li dispensa.
I consigli sono una forma di nostalgia.
Dispensarli è un modo di ripescare il passato dal dimenticatoio,
ripulirlo, passare la vernice sulle parti più brutte
e riciclarlo per più di quel che valga.

Ma accetta il consiglio… per questa volta.

venerdì 4 giugno 2010

La Sig.na Immaginazione e la Sig.ra Ragione



All’Immaginazione non veniva mai dato il giusto peso. La Signora Ragione, sempre sicura e riverita, attraversava i secoli ponendosi come l’unico ideale possibile. E ogni qual volta l’Immaginazione si insinuava nella testa di qualcuno, era solo in quella dei bambini che si trovava a suo agio. Gli adulti, beh, la rifuggivano, perché avevano paura di non essere presi sul serio dagli altri, se beccati a fantasticare.
La Ragione invece, specchio obiettivo della realtà, era ricercata da tutti e non appena qualcuno se ne mostrava privo, incontrava i biasimi e le ire degli altri.
Immaginazione e Ragione, tra loro, non andavano così d’accordo, diciamolo pure. La prima, ingenua, istintiva, non si curava tanto del mondo, pronta a fornirne uno migliore a chiunque l’accogliesse in sé.
La seconda, orgogliosa e sicura di sé, non accettava di dividere i suoi meriti con la nemica, nonostante in cuor suo, sapesse quanto grande fosse l’apporto dell’Immaginazione alla sua esistenza.
Un giorno, la Signorina Immaginazione, stanca di essere scacciata e rifiutata da tutte le menti, fuorchè quelle dei bimbi, decise di rimanere solo con loro. I bambini di tutti i Paesi cominciarono a inventare storielle, fiabe, racconti. E più la loro Immaginazione diveniva grande, più cominciavano a risolvere problemi difficili.
D’altro canto, la Signora Ragione, senza la spinta dell’Immaginazione, non riusciva più a porsi come soluzione nelle menti delle persone. Gli uomini e le donne vagavano per le strade cercando di ragionare, ma non riuscivano a capire più nulla, persi nelle loro analisi razionali senza capo né coda.
La Ragione allora, capendo la gravità della situazione, corse a chiamare i bambini, che con la loro Immaginazione inventarono una fiaba per spiegare ai grandi l’importanza di questa dote.
Fu così che nacque questa storia.
Da quel momento Ragione e Immaginazione non si divisero mai più, avendo capito che solo unite sono vincenti.
Infatti è solo grazie all’Immaginazione che nascono le grandi idee.
Ed è solo con la Ragione che possono essere portate avanti.

mercoledì 2 giugno 2010

Il mare catarsi


Scese dalla navetta che l’aveva portata al mare. Attraversò la ghiaia con passi decisi. Con sé, solo una borsa di paglia colma di pagine.
Le famiglie che tornavano dal mare salivano sulla navetta. Lei faceva il contrario. Il mare lo raggiungeva in quel momento, sul calar del sole. Si addentrò nella pineta e, viaggiando tra i pensieri, percorse una stradina stretta. Si sentiva vuota, come una scatola che avanzava tra gli alberi per inerzia.
Giunse alla passerella che portava alla spiaggia. Si tolse i sandali e scese attraverso una duna. La spiaggia era segnata dai passi di chi era appena passato, segnata da vite sconosciute che avevano condiviso un pezzo di mondo.
Camminava lentamente, verso la riva. Si fermò solo quando l’acqua le bagnò i piedi.
Poi un gesto veloce, ma meticoloso.
La borsa a terra. Vuota. I fogli in mare, uno ad uno.
A quel punto si accovacciò, le ginocchia davanti al viso, le mani intorno alle ginocchia, il mento poggiato.
Guardò i fogli scorrere via, qualcuno indugiando, qualche altro veloce.
E pianse. Pianse dapprima piano, sibilando. Poi sempre più forte, stringendo i denti. A singhiozzi. Urlava quasi, le lacrime ormai le avevano bagnato completamente il viso.
Se le portò via il mare quelle lacrime, una ad una. Le prese in sé togliendole dai suoi occhi, come aveva preso quelle righe scritte su fogli ormai ingialliti dal tempo.
Solo il mare sapeva di lei. Solo il mare sapeva il suo segreto.
Il mare confidente. Il mare catarsi.

domenica 16 maggio 2010

Sogno metropolitano




Precisamente ogni mattina, precisamente alle 8.35, precisamente sulla Linea A, si gustava il suo spettacolo quotidiano. Da caso fortuito l’aveva fatto diventare un’abitudine e poi un rituale a cui ormai non poteva più rinunciare. Aveva coordinato l’inizio della sua giornata per non perdere quel momento. Tutto organizzato nei minimi dettagli, perché un ritardo di un minuto voleva dire non vederla per 48 ore.
La sveglia suonava alle 7.45 esatte. Aveva due minuti per stare nel letto, prima di alzarsi e fare la pipì. Per il caffè e la colazione aveva 13 minuti, poteva arrivare a 14 quando c’era da aprire la nuova confezione di caffè e travasarlo. Nella doccia poteva stare 8 minuti e per asciugare i capelli aveva 2 minuti. Si lavava i denti in 3 minuti, cronometrati. 5 minuti per vestirsi: a cosa mettersi ci pensava la sera prima. E alle 8.20 usciva di casa, scendeva le scale, girava l’angolo a destra. Percorreva i duecento metri che lo separavano dalla fermata della metro. Scendeva e aspettava il suo treno, quello delle 8.35.
Saliva sul terzo vagone. Uno, due tre. Porta di destra. Angolo di destra appoggiato al muro. E aspettava due fermate prima del miracolo. Le porte si aprivano e saliva il suo sogno. Chissà cosa avrebbe indossato? Quella settimana ancora non aveva mai messo le ballerine rosse. E infatti, eccole ai piedi. Aveva anche gli occhiali da vista quella mattina. Rossetto rosso e capelli legati. Si, perché il giorno prima erano sciolti e fluenti. Li avrebbe lavati quella sera.
Solita borsa di cuoio, poggiata tra le gambe dopo essersi seduta sul solito posto centrale. Erano 4 giorni che apriva Jane Eyre, la vedeva avanzare nella lettura.
Era un intimo spettacolo e gli sembrava fosse solo per lui. Fosse il suo premio per iniziare la giornata. Non voleva sapere nulla di lei, preferiva immaginarla. Le aveva dato un nome: Sofia. Se la immaginava insegnante in un asilo nido che si trovava accanto alla fermata dove ogni mattina lei scendeva. Aveva spesso borse colorate con tanti fogli dentro. Per lui erano i disegni dei suoi bambini.
Non l’aveva mai sentita parlare al telefono, in realtà non l’aveva mai vista con un telefono. Immaginava che non lo avesse.
Immaginava che lei non lo avrebbe notato mai, come fino ad allora era stato. Lui la guardava, ma non la fissava. Non appena lei faceva cenno di alzare gli occhi, lui li abbassava. Se per caso gli squillava il cellulare, non rispondeva. Lasciava continuare la vibrazione per non rompere quell’incantesimo.
Dopo tre fermate lei chiudeva il libro e si alzava, andando ad afferrare la maniglia accanto alla porta. Guardava sul vetro, persa nei suoi pensieri. Poi scendeva e andava verso destra, verso l’uscita. Il treno lo portava nella parte opposta, verso la sua destinazione e lui la seguiva con lo sguardo finchè poteva, finchè riusciva a scorgerla.
Solo allora poteva iniziare la sua giornata. Raggiungere il suo studio e iniziare a progettare.
Quella mattina, la mattina del 13 aprile, lei non si sedette. Rimase in piedi, eppure di posto ce n’era. Si mise di fronte a lui. Non aprì il libro. Si appoggiò alla parete. Guardava a terra, le sue scarpe. Quella mattina erano stivaletti neri. Aveva un cappello viola in testa, che le pendeva da un lato. Quando alzò gli occhi stava sorridendo. Lui pure le sorrise, senza parlare.
Lei non scese alla sua fermata. E neppure lui alla sua. Arrivarono al capolinea e scesero insieme, senza smettere di sorridere. La folla si disperse e rimasero fermi, l’uno di fronte all’altra.
Lei: Perché abbassavi lo sguardo quando lo alzavo io?
Lui: Perché non volevo essere scoperto
Lei: Ma è proprio così che ti sei fatto scoprire
Lui: Allora forse volevo essere scoperto
Lei: Mi chiamo Susanna
Lui: Non Sofia? No, scusami… nulla. Io Marco.
Lei: Sapevo che prima o poi avrei dovuto fare qualcosa
Lui: Non pensavo…
Lei: Lo so. Caffè?
Lui: caffè.

martedì 11 maggio 2010

Ipazia, che credeva nella filosofia





Alejandro Amenabar ha preso una vita e ne ha fatto un capolavoro. La vita è quella di Ipazia, filosofia alessandrina di fine IV secolo, personaggio eclettico e affascinante, che attraversa le vicende storiche con passo deciso.
La cornice è data dagli scontri violenti che hanno segnato Alessandria D’Egitto subito dopo L’Editto di Tessalonica emanato dall’Imperatore Teodosio I che rendeva il Cristianesimo religione ufficiale dell’Impero. La tradizione pagana veniva soppiantata con la violenza dalle nascenti sette cristiane, la più ortodossa delle quali è quella dei Parabolani.
In questo sfondo si muove con grazia la figura della protagonista, il cui fascino è reso ancora più eccezionale dalla sua reale esistenza storica. Nonostante non siano pervenuti suoi testi scritti, si sa che dedicò la sua vita allo studio, alla cultura, alla filosofia, all’insegnamento, in particolare dell’astronomia. Nel film questa ricchezza è ben testimoniata, così come la risolutezza di Ipazia nel non voler rinunciare alla libertà della propria ricerca, per piegarsi a un credo religioso, nonostante ciò le costi prima l’emarginazione e poi la morte.
La figura di Ipazia è bella. È bella perché non eccessivamente romanzata, né verso un’ideale di donna algida e ascetica, né verso l’ideale hollywoodiano dell’eroina rapita dalle passioni d’amore. Ipazia è semplice, nella sua intelligenza e nel suo coraggio, così come narrato anche da Socrate Scolastico in alcuni frammenti, ai quali probabilmente il regista ha fatto riferimento. Ed è proprio questa intelligenza, che l’ha fatta temere. Perché la coscienza libera di chi è in grado di mettere in crisi dogmi e leggi, non può far altro che spaventare coloro che queste leggi le detengono. La storia non è mai a lieto fine. Ipazia fu uccisa dai Parabolani. Fu colpita da pietre. Solo questo particolare Amenabar ci risparmia, porgendocelo con l’espediente di una scena emozionante a dir poco, proprio sul finire del film, laddove ormai ci si è innamorati di questa donna e di tutto ciò che la sua figura rapprendenta.
Infatti la bellezza di questo film e ciò che lo rende ancor più interessante, è l’attualità delle tematiche che, nonostante traslate su un piano di quasi duemila anni fa, non sembrano lontane dagli scontri ideologici tra scienza e religione che ancor oggi infiammano la società.
Dal punto di vista estetico nulla da eccepire. Ogni scena potrebbe essere un quadro e, ad uno sguardo più attento, non mancano metafore visive originali. Non aspettatevi scene d’amore strappalacrime, ma il fascino garbato e delicato di sguardi e gesti inaspettati. Aspettatevi scene violente, ma nulla che si discosti troppo dal reale, anzi la cruda realtà, senza abbellimenti o esagerazioni.
Aspettatevi un gran film, insomma. Forse il più bello degli ultimi anni. E una grande donna, che forse non è stata ancora scoperta a sufficienza e che, tanti secoli fa, ha avuto il coraggio di ribellarsi in nome dei propri ideali, in una società resa ancor più misogina dal culto cristiano nascente.
E mi viene da paragonarla ad una delle stelle alle quali ha dedicato la sua vita. Un lampo di luce deciso nel buio e la fermezza, la perfezione, l’essenzialità del punto.

mercoledì 5 maggio 2010

Il 25 Aprile: guerra civile o Liberazione?




A differenza della Francia o dell’Inghilterra, l’Italia non si è gloriata di una vera rivoluzione. È anche per questo che la data del 25 aprile dovrebbe assumere un forte significato. Eppure anche in questo caso il Paese risulta diviso dalle polemiche e dalle interpretazioni spesso antitetiche che sono state date a questa giornata.
L’idea di liberazione e di rivoluzione rispetto a uno stato dittatoriale e opprimente, è stata negli ultimi tempi abbandonata a favore di una visione più critica che pone l’accento sulle luci e le ombre della Resistenza, tanto da adottare il termine di “guerra civile”. Ma fino a che punto questo è vero? Se si intende la guerra civile semplicemente come scontro violento tra persone appartenenti allo stesso popolo, da un lato si può essere d’accordo, ma dall’altro si sacrifica la vera natura di questo scontro. Il vero nemico erano i Nazisti, i tedeschi che pretendevano il controllo di un territorio che non gli apparteneva di diritto. Per quanto riguarda la popolazione italiana, questa era divisa tra i Repubblichini che appoggiavano l’invasore tedesco, i partigiani che lo combattevano e la stragrande maggioranza degli italiani che osservava e attendeva la propria sorte, senza immischiarsi direttamente alla lotta di Liberazione.
Partendo da questo presupposto mi sento di escludere la definizione di “guerra civile”, troppo semplicistica e per un verso limitativa. Ciò non significa che non si debbano ricordare tutti gli italiani che sono morti in quella circostanza, indipendentemente dalla parte che avevano scelto. Le uccisioni e le stragi sono state il duro prezzo da pagare per la democrazia, ma non per questo sono giustificabili.
A posteriori però, da cittadina italiana che crede fortemente nella democrazia, non posso che inchinarmi di fronte a coloro che l’hanno resa possibile e, d’altra parte, condannare chi si è schierato dalla parte dell’autoritarismo e del nazismo.
Per questo ho festeggiato il 25 aprile, oggi festa Nazionale. Festa che dovrebbe unire tutti gli amanti della libertà, della giustizia sociale e della democrazia.

venerdì 9 aprile 2010

L'insostenibile leggerezza del... caso


Mi ha sempre affascinato l’idea che ciò che è la nostra vita oggi, deriva da una serie di fatti avvenuti in un determinato ordine. E per fatti non intendo grandi cose, ma piccoli dettagli che però cambiano tutto. Gli incontri che ci hanno cambiato la vita sono nati da circostanze determinate. Quelle e non altre. Perché se il semaforo fosse stato rosso e non ci fossimo dimenticati il telefono o magari avessimo comprato il pane in un forno o nell’altro o fossimo usciti 30 secondi dopo, beh quelle persone non le avremmo mai conosciute.
Non ho il sostegno di una fede nella predeterminazione, né credo in un disegno che si sta svolgendo. Ma è proprio la consapevolezza che c’è il caso dietro ogni azione, ciò che mi attrae maggiormente. Perché, paradossalmente, l’idea che ogni fatto rientri in un progetto, la riporta in un piano di logicità, di staticità e la rende comprensibile all’uomo. Al contrario il caso non può essere capito, perché non ha una logica intrinseca. Per questo l’uomo cerca di imbrigliare la casualità in oroscopi o destini vari, per tenere sotto controllo ciò che altrimenti non potrebbe. E sappiamo quanto ci da fastidio non sapere, non potere sapere. Ci da così fastidio che inventiamo soluzioni, razionalmente inaccettabili, solo per il gusto di far finta di avere coscienza.
Ad ogni modo, al prezioso contributo del caso mi ci ha fatto pensare Kundera ne: L’Insostenibile leggerezza dell’essere. Si chiede Kundera: gli incontri nascono da una serie di circostanze stupide, di poco conto. E la natura della loro origine li rende meno importanti? O al contrario è proprio perché nascono da circostanze fortuite che sono ancora più eccezionali?
Io opto per la seconda, tutta la vita. Se penso alla mia vita oggi, ad esempio, devo molto ad una fotocopiatrice. Ma questa è un’altra storia e non mi ci addentro, perché voglio prestare fede al mio proposito di non vomitare informazioni personali solo per il gusto di farlo.

domenica 28 marzo 2010

Ho visto Nina volare (Fabrizio De Andrè)


Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall'altra la cera

mastica e sputa
prima che metta neve
ho visto Nina volare
tra le corde dell'altalena

un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena
luce luce lontana
che si accende e si spegne

quale sarà la mano
che illumina le stelle
mastica e sputa
prima che venga neve

sabato 27 marzo 2010

I soldi sul comodino


Anche quella sera si preparò un bagno caldo. Ma prima fece una doccia fredda. Ogni sera prendeva la spugna, quella più dura che era riuscita a trovare, e cominciava a passarla sulla pelle. Con forza. Consumava flaconi di bagnoschiuma al latte, che le ricordavano di quando era bambina. Partiva dal collo e scendeva fino ai piedi. Voleva toglierselo tutto quell’odore maledetto. Grattava, tirava via la puzza di un altro, fino a scorticarsi.

Poi passava ai capelli. Quanto amava i suoi capelli. Neri, le ricadevano morbidi sulla schiena. Usava uno shampoo fruttato e li massaggiava dolcemente, per tornare a farli suoi.

Uscita dalla doccia non si asciugava. Entrava direttamente nella vasca. E rimaneva così. Certe volte sperava di morire lì. Non svegliarsi più, morire addormentata e profumata.

Invece si svegliava sempre e la sua vita era ancora là ad aspettarla. Si mostrava nei soldi poggiati sul comodino, affianco a quei fazzoletti sporchi.

Ci aveva pensato tante volte a smettere. Era famosa nel giro, rispettata. Dopo tanti anni cominciano a rispettarti, si diceva. E più ti rispettano gli altri meno ti rispetti tu. E pensare che all’inizio le piaceva anche. Quando aveva incontrato Moira non aveva nulla, solo i suoi sedici anni da orfana. Lei le aveva offerto una casa, vestiti, protezione. Tutto in cambio di qualche serata diversa, concessa ai “suoi amici”.
Era un mondo nuovo, a tratti si sentiva lusingata. Ma ora, dopo quindici anni passati su letti disfatti era solo stanca e sporca. Non sporca moralmente, no, no, sporca nella pelle. Più lavava il suo corpo e più lo trovava consumato, macchiato.

Ci aveva pensato sul serio a smettere. Non era facile uscire da quella vita e probabilmente non ne aveva voglia a sufficienza. Era il dopo a spaventarla.

Così dopo il bagno si vestiva per la notte. Cambiava le lenzuola, ogni sera. Per ogni uomo che passava. Per ogni vita che incrociava la sua. Per ogni corpo che prendeva il suo.

E nel profumo si addormentava, sognando una vita diversa, pulita.

E nel profumo si svegliava. Accanto, i soldi sul comodino.

domenica 28 febbraio 2010

INVICTUS



Dal profondo della notte che mi avvolge

buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,

ringrazio gli dei chiunque essi siano

per l'indomabile anima mia.


Nella feroce morsa delle circostanze

non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.

Sotto i colpi d’ascia della sorte

il mio capo è sanguinante, ma indomito.


Oltre questo luogo di collera e lacrime

incombe solo l’orrore delle ombre

eppure la minaccia degli anni

mi trova, e mi troverà, senza paura.


Non importa quanto sia stretta la porta,

quanto piena di castighi la vita.

Son Io il signore del mio destino.

Son Io il capitano dell'anima mia.

mercoledì 24 febbraio 2010

Schopenhauer e i baci perugina sull'ALTRO.


Ogni persona che passa nella nostra vita è unica, lascia un po’ di sé e prende un po’ di noi.

Mi è venuta in mente questa frase, non ricordo dove l’ho sentita. Ma oggi l’ho pensata. Poi ho provato a digitarla su google ed è comparsa in molte forme diverse, ma citata in tantissimi link.
Il bello di ciò che studio, la filosofia, è che mi sto accorgendo che mi spinge ad andare oltre l’evidenza delle cose, o meglio, ad analizzare le parole, le frasi. Quindi, se pur non mi concederà un posto confortevole nella società, sono sicura già da ora, che i miei studi non saranno trascorsi invano, anzi avranno arricchito la mia personalità. Perché, parlando in generale, ciò che studio sono visioni del mondo diverse. E proprio questa diversità io la considero una ricchezza.
Tornando alla frase, riflettendoci un po’ su, credo sia, nella sua essenzialità, profondamente vera. Dimostrazione che si può trovare qualche spunto utile anche in una frase stile “baci perugina”.
Voglio cercare di prescindere, in questa riflessione, da spunti autobiografici, anche se resto convinta che ogni parola scritta è frutto, anche indiretto o involontario di ciò che abbiamo vissuto.
Ad ogni modo, è vero che ogni persona è UNICA. Sembra un dettaglio scontato, eppure è così. E spesso pochi se ne ricordano, compresa me, oggi che la tendenza al qualunquismo e al generalismo è sempre più forte.
Ma quello che mi preme realmente sottolineare è l’importanza della seconda parte della frase. È un modo secco per dire che l’individuo si può realizzare solo a contatto con gli altri, aprendosi, dandosi, rinunciando almeno dal punto di vista emotivo, a quel solipsismo che invece lo incastra dal punto di vista gnoseologico. E qui torna attuale la lezione di Schopenhauer, poco capito forse e spesso liquidato con l’accusa di “pessimismo” senza via d’uscita.
A mio avviso, nell’ultima fase della sua vita, è riuscito a rivalutare la dimensione intersoggettiva, capendo che per vivere bisogna aprirsi, rinunciando alla propria sicurezza di individuo, per perdersi nella molteplicità.
E forse con uno sguardo azzardato, quella frase da “baci perugina” può farci capire questo: rischiare, abbandonarsi al corso degli eventi, incontrare persone, non aver paura di parlare, di comunicare, di ascoltare. Non aver paura di vivere gli altri, perché è solo tramite questa meravigliosa contaminazione umana che si vive realmente.

lunedì 22 febbraio 2010

Radiofreccia e dio.






Premessa: chi scrive è a-tea, cioè senza dio. È il mio blog, quindi ci scrivo liberamente ciò che penso. Ma amo la dialettica e il confronto, quindi critiche benvenute!






“Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio.”


In questa semplice frase, pronunciata alla svelta di fronte al microfono di una vecchia radio di provincia, Freccia ha racchiuso uno dei problemi più grandi dell’umanità. Per provare ad analizzare certi problemi, bisogna cambiare prospettiva e solo in questo modo si può assumere un atteggiamento critico rispetto a ciò che ci riguarda più da vicino, a ciò dentro cui siamo anche noi.
Per fare un esempio, siamo talmente abituati a vivere con l’ausilio dell’elettricità che non ci poniamo il problema di come sarebbe diversamente. Nello stesso modo siamo così immersi in una società impregnata di religione, nel nostro caso cattolica, da non pensare che ci sono visioni del mondo alternative.
Ho aperto con la frase di Radiofreccia perché fa comprendere quale ambiguo rapporto ci sia nella mente dell’uomo tra la realtà mondana e quella soprannaturale, potendola definire così. Tra il mondo, inteso come esperienza sensibile, e un ipotetico dio. È così fortemente radicata in noi l’idea di un mondo extrasensibile, ulteriore, finale, che siamo arrivati a definire poco ciò che abbiamo di fronte agli occhi, ciò che siamo realmente.
Freccia parte da questo presupposto: Credo che non sia tutto qua. E già da qui emerge da un lato il disincanto per il mondo in cui vive e dall’altro la speranza, spinta a credenza, che ci sia qualcosa di ulteriore, che quindi legittimi la pochezza di questo stesso mondo.
La spinta all’oltre d’inizio frase cade però di fronte all’esigenza di “fare i conti con quello che c’è qua”. Cioè a dire, potrebbe darsi che ci sia qualcosa oltre, voglio credere che sia così, ma non per questo posso dimenticare la mia vita reale, quella fatta di carne e sudore.
Ma il passo decisivo è a fine frase, quando Freccia, data un’occhiata al mondo e visto che non è abbastanza, “misà che crederà prima o poi in qualche dio”. È proprio questa la dimostrazione che in maniera circolare chiude il ragionamento. “Io so che devo fare i conti con quello che c’è qua, non posso dimenticarlo per un oltre che non vedo, eppure proprio il dolore di ciò che vedo, mi spinge a credere in qualcosa d’altro.”
Una sconfitta nella sconfitta. O meglio un ammettere la sconfitta, rispetto all’impossibilità di vivere la vita reale. Perché se la frase fosse finita senza quel “e allora mi sa…” sarebbe stata una vittoria. Credere, prima di tutto a quello che c’è davanti agli occhi, ogni dannato giorno.
Peccato che gli uomini e le donne, da millenni a questa parte, non hanno avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà, abbandonandola o, peggio ancora, finalizzandola a un futuro immaginato grazie a fantomatiche allegorie di vari testi sacri. Rispetto a questa esigenza poi, c’è chi è riuscito nell’intento di trovare uno scopo ulteriore alla vita presente e accetta in quest’ottica con una serena rassegnazione ciò che gli succede, perché tassello di un ipotetico progetto più vasto. Ma c’è anche chi non ci riesce, si chiude in una fede per vivere quei momenti di conforto immaginario, fermo restando il ricadere poi nello sconforto più totale alla prima difficoltà.
Per i primi, beh, beati loro. Hanno trovato la felicità, certo in un mondo di cartone, ma sono felici. Felici nella rinuncia magari, nel sacrificio, ma soprattutto felici per la speranza che hanno. Per gli altri però non è così semplice, anzi, la fede spesso diventa un peso in più da sostenere, un problema da spiegarsi e non un conforto. E allora a che scopo?
Poi ci sono altre persone( e io mi sento tra queste) che non ci credono a “qualche dio”. Pur avendo vissuto in un mondo così fortemente religioso, non sono riuscite a creare una loro coscienza di fede. E come negli altri casi ci sono pro e contro. Come sarebbe bello, ad esempio, avere la certezza di rincontrare quelli che se ne sono andati per sempre. Avere la certezza che la bontà “viene sempre premiata” e che i cattivi prima o poi avranno ciò che spetta loro. Sarebbe rassicurante. D’altra parte però, chi non è imbrigliato in religioni confortanti, ha un mondo molto più ampio davanti a sé. Ne ha uno in meno certo, ma molto più ampio e pieno di sfumature. Non c’è il peccato, ma la propria coscienza. Non ci sono dogmi, ma ragionamenti. Non ci sono dei, ma la natura. Non c’è il demonio, ci sono le persone cattive. Non c’è chi ha la verità in tasca, ci sono tante verità, diverse e per questo dialetticamente costruttive. Non ci sono costrizioni contro natura, solo scelte e piacere.
Come ho premesso, chi scrive è un’atea. Una senza dio, che dio neanche lo cerca né lo vuole, perché non serve. E se mi sarò sbagliata, beh, lo scoprirò quando sarà troppo tardi per tornare a cancellare la mia vita vissuta a pieno. Meglio così.

mercoledì 10 febbraio 2010

La prima cosa bella. Virzì stupisce ancora.




“La prima cosa bella, che ho avuto dalla vita, è il tuo sorriso giovane, sei tu…” Cantava così Nicola Di Bari nel 1970, in un’Italia vecchia ma estremamente nuova. E’ questa l’Italia che ritroviamo nel film di Virzì, quarant’anni lontana da noi, e però così attuale. Forse la sensazione è data dall’alternarsi dei piani temporali, eppure lo stacco è sanato elegantemente dal filo delle emozioni, che non cambiano negli anni.

C’è una mamma “troppo importante” in questo film, Anna, interpretata da una straordinaria Stefania Sandrelli, intorno alla quale girano le vite dei suoi figli, Claudia Pandolfi e Valerio Mastrandrea. Tutto avviene a Livorno. Ma con ‘tutto’ non intendo una storia, perché questo film non narra una storia. Narra una vita.

La vita di una donna, che potrebbe essere la vita di ogni donna negli anni settanta. Una lacerazione profonda segna Anna, che tra obblighi sociali e ambiziose aspirazioni, riversa il suo profondo amore sui suoi figli. Per loro supera ogni difficoltà sempre con il sorriso e col suo carattere forte, ma esuberante. Però da una madre così si può uscire sconfitti, se non si scappa, non si corre lontano. Eppure la distanza non taglia i legami, che tornano prepotentemente nei momenti più difficili della vita.

“La prima cosa bella” non è un film triste. È un film reale. Perché è solo nella realtà che trovi il riso mescolato al pianto. E reali sono anche i protagonisti, reali persino nell’infanzia grazie a due straordinari piccoli interpreti.

Virzì si riconferma grande indagatore delle relazioni interpersonali, soprattutto familiari. Dopo aver narrato con disincantata ironia il dramma sociale di “Tutta la vita davanti”, torna a mostrarci un pezzo di vita. Un rapporto di maternità sospeso sul filo della storia italiana.
Nulla da aggiungere. Buona visione.