lunedì 14 dicembre 2009

Natale multiCULTURAle


Un messaggio male interpretato, quello lanciato da una scuola elementare statale di Cremona. Di fronte al forte accento multiculturale che caratterizza l’istituto, infatti, i docenti hanno sentito la necessità di fare del Natale un momento di condivisione, al di là delle differenze etniche.
Hanno scelto il nome “Festa delle Luci” per esaltare lo spirito di pace e solidarietà che caratterizza questa festa. Il loro intento, hanno spiegato, non è rinnegare il Natale o la tradizione cristiana, ma non urtare le altre culture e permettere ai bambini, anche di altre religioni, di festeggiare una festa di pace insieme ai loro compagni.
Ma siamo in Italia, un’Italia che per proteggere le proprie tradizioni, mette in secondo piano le persone. Ne ha dato prova il Ministro Gelmini, che ha commentato con parole dure l’iniziativa: “Non si crea integrazione e non la si aiuta eliminando la nostra storia e la nostra identità. In particolare il Natale contiene un messaggio di fratellanza universale. Quindi è un simbolo che non divide ma unisce” Un commento cieco e estremamente semplicistico.
Anche perchè è proprio dalla consapevolezza di un Natale che può unire che è partita l’idea degli insegnanti del Manzoni. Troppo spesso infatti, si trattano tematiche etiche che dovrebbero essere condivise, come prerogativa della religione cristiana. La solidarietà, la pace, la fratellanza, esistono anche in altre culture e forse in Italia il Natale può essere interpretato in questo senso, accentuandone gli aspetti che sono condivisi da tutti. È questo lo sforzo che bisogna fare oggi, in un mondo in cui la parola d’ordine è multicultura. Le maestre del Manzoni hanno compreso che c’è il bisogno di aprirsi, ma soprattutto di dare ai bambini un insegnamento che sviluppi la loro capacità di interagire con le diverse etnie.
Niente scalpore quindi, o rinuncia alle proprie tradizioni. Semplicemente un tentativo di dare maggior valore al Natale, interpretandolo nel senso di una festa della pace e rendendolo quindi la festa di tutti.

domenica 13 dicembre 2009

C'è ancora un pò di spazio per i sogni? Imagine...




Imagine there's no heaven

It's easy if you try

No hell below us

Above us only sky

Imagine all the people

Living for today...


Imagine there's no countries

It isn't hard to do

Nothing to kill or die for

And no religion too

Imagine all the people

Living life in peace...


You may say I'm a dreamer

But I'm not the only one

I hope someday you'll join us

And the world will be as one


Imagine no possessions

I wonder if you can

No need for greed or hunger

A brotherhood of man


Imagine all the people

Sharing all the world...

You may say I'm a dreamer

But I'm not the only one

I hope someday you'll join us

And the world will live as one

venerdì 11 dicembre 2009

Un filtro per le parole


Oggi durante la lezione di Storia delle dottrine politiche, il prof ha detto che noi italiani siamo sfortunati, perchè abbiamo poche parole da usare e invece le cose del mondo sono miliardi.

E, io penso, se alle cose del mondo ci aggiungiamo ciò che c'è in noi di emozioni, sentimenti e pensieri, un vocabolario risulta davvero poco.

Poi non è solo questione di scelta delle parole giuste per veicolare i nostri pensieri, ma è anche scelta di TONO.

Capita spesso che solo per il MODO di dire certe cose, queste vengono recepite in maniera sbagliata.

Quanto è difficile tradurre in catene di fonemi ciò che di più recondito c'è nella nostra testa. Il meccanismo è talmente rapido che spesso neanche ci accorgiamo di aver detto ciò che abbiamo detto, e magari pensandoci su, scopriamo che è lontanissimo da ciò che in realtà pensiamo.

Ci vorrebbe una sorta di FILTRO, che blocca i discorsi e le frasi sbagliate, che hanno qualche difetto di fabbrica, che non corrispondono a ciò che, a mente fredda, noi pensiamo.

E una LUCINA rossa che lampeggia e ci avverte del pericolo: 'Ehi, parole, DIETRO FRONT, tutto da rifare!'

Chissà se così riusciremmo a capirci più facilmente, con il TONO giusto, la FORMA giusta e soprattutto i TERMINI giusti.

martedì 24 novembre 2009

Il giardino delle delizie. BOSCH

Se non ce la fai più e senti che tutto il mondo è contro di te, mettiti a testa in giù. Se ti viene in mente di fare qualche pazzia, falla.

domenica 22 novembre 2009

Kaela, figlia del mare


Kaela era figlia del mare. Era nata tra le onde, ma non aveva visto la luce, perché era nata nel buio. Quel buio nero che crea il mare quando s’abbraccia al cielo. Aliya la partorì in silenzio, con un pezzo di stoffa tra i denti, per non disturbare gli altri cento che pregavano. Pregavano per la prima vittima di quel viaggio di speranza, abbandonata dolcemente tra le onde perché non c’era posto per i morti su quella barca. E proprio su quel gommone tra due terre la morte lasciava il posto alla vita, in un angolo di mondo senza tempo, dove il passato s’univa al futuro.
Se l’era tirata su dalle cosce Aliya, e l’aveva avvolta in un coperta di lana spessa, che prima era servita a proteggere la pancia e ora a proteggere Kaela, ancora viola di prima vita.
Erano partiti in tanti dalla Somalia, Aliya s’era fatta un fagotto e aveva ricercato il coraggio in fondo a sé. L’aveva aiutata Sadiiq. Vai tu, io arriverò. Vai a partorire in paradiso, io ti raggiungerò. Ed era partita. Era partita per lei, per il suo uomo, ma soprattutto per la figlia che aveva in grembo.
I primi dolori erano arrivati nella lunga strada dalla Somalia all’Egitto e poi alla Libia e il sentore di un parto improvviso s’era insinuato dentro di lei, ma ormai era troppo tardi per rinunciare ad imbarcarsi. A Tripoli li aspettavano gli scafisti. I soldi ce li aveva nascosti nel petto, risparmi di una vita spesi per la vita.
S’erano imbarcati di notte ed erano tanti, troppi in quei gommoni così stretti. Le ragazze che aveva conosciuto Aliya non le rivide mai più, s’imbarcarono diversamente.
Sapeva che ci sarebbe voluto tanto, almeno venti giorni e venti notti a tenersi saldamente pregando la clemenza del mare. E sapeva che avrebbe conosciuto la morte, le si sarebbe presentata nei visi spenti di chi non sarebbe sopravvissuto.
Dopo il primo, di morti abbandonati ne erano seguiti altri. E altri ancora. Ma a ogni braccio che Aliya vedeva scivolare nell’acqua, cercava di concentrare la sua attenzione sugli occhi di sua figlia. Erano celesti, vivi, anche se la sofferenza s’era già insinuata in quel corpicino troppo debole. Di latte ne aveva Aliya e doveva lottare con le forze che l’abbandonavano giorno dopo giorno.
L’acqua era finita il diciannovesimo giorno e s’era portata dietro le speranze. L’unica fonte di energia era il canto. Un canto sibilato, dolce, che sussurrava cullando la sua piccina, avvolta nel poco calore che riusciva a trasmetterle. C’erano momenti in cui la sua vista si annebbiava e doveva lottare per mantenere conoscenza. Era il pianto di Kaela a tenerla viva, perché finchè c’era pianto, c’era vita.
Non capì quando gli altri cominciarono a gridare. E neanche quando la sollevarono dalla barca cercando di rassicurarla. Probabilmente capì di avercela fatta solo quando si svegliò in un letto caldo accanto a un’incubatrice in cui dormiva dolcemente Kaela, con un pugno piccolo piccolo appoggiato accanto al volto. Furono i colori a farla sentire bene. Fu il contrasto tra lo scuro cioccolato della pelle della sua bambina e il bianco candido dei lenzuoli che l’avvolgevano.
In quel contrasto c’era la vita. E quel bianco era semplicemente un nuovo inizio.
Non aveva paura Aliya, l’aveva sprecata tutta su quel gommone. Ora le rimaneva la tranquillità, la consapevolezza che tutto doveva necessariamente andare meglio. Perché il difficile doveva essere passato.
Pensò a Sadiiq, a quando l’avrebbe raggiunta. Era certa che lui ce l’avrebbe fatta a sopportare quel viaggio, perché l’amava troppo per abbandonarla.
È sugli occhi di Kaela che si chiude questa storia. Su quegli occhi inconsapevoli e celesti, su una bambina che crescerà guardando il mondo e credendolo l’unico possibile, senza ombra di ciò che di diverso invece esiste. E si chiude sulle labbra carnose di Aliya, nel momento in cui si schiudono in un sorriso, per il solo fatto di aver cambiato il mondo di sua figlia, di averle regalato un universo migliore in cui vivere e averla salvata dal dolore che invece aveva segnato lei.
È così che si chiude questa storia. Su due occhi di bambina che osservano con curiosità il proprio papà, dopo cinque anni di attesa. E con le labbra carnose di Aliya che toccano quelle di suo marito, dopo cinque anni di attesa.

mercoledì 11 novembre 2009

Questo crocefisso non s’ha da fare

«La presenza del crocefisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche, potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione».
Con queste parole la Corte europea dei diritti dell’uomo sancisce il divieto di esporre il crocefisso nelle aule scolastiche. La sentenza è del 3 novembre scorso e ha segnato l’inizio in Italia di un dibattito pronto a durare a lungo.
La decisione è stata presa in seguito all’appello di una cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi Albertin, che dopo i rifiuti da parte dei tribunali italiani, ha deciso di fare ricorso presso la corte di Strasburgo.
Ma le conseguenze di questa decisione non si sono fatte attendere, anzi infiammano gli animi di tantissimi italiani, che si sono sentiti colpiti in una tradizione radicata come quella cristiana o nella loro propria fede. Non sembra tuttavia legittimo questo risentimento; anzi fa risaltare la legittimità e la giustezza della decisione europea.
Si, perché si può intendere il crocefisso o come puro simbolo di fede o con significato ‘culturale’, laddove comunque questo ‘culturale’ resta piuttosto vago. In entrambi i casi non ci sono ragioni per ammettere il crocefisso in aula. Se rappresenta una fede, è ciò che di più lontano può coniugarsi con un ente pubblico come la scuola, che dovrebbe avere un altissimo livello di laicità, proprio perché pubblico, laddove pubblico vuol dire di tutti, non dei soli cristiani.
D’altra parte molti italiani lo elogiano in quanto simbolo della cultura italiana. E a questo punto c’è da offendersi, perché la tradizione italiana è molto più ricca di quanto un crocefisso possa rappresentare. Certo la cristianità ne rappresenta alcuni contenuti, ma non tutti.
Basti pensare al fatto che il crocefisso è entrato nelle aule scolastiche solo nel 1859 con la Legge Casati e ne è stata legittimata la presenza ufficialmente solo sotto il fascismo, dunque in periodi storici in cui la linea di confine tra stato e chiesa era tutt’ altro che demarcata.
Ma oggi che l’Italia non è più un Paese confessionale, oggi che si grida alla laicità e soprattutto all’incontro di culture, l’ostentazione di questo simbolo religioso in ambienti pubblici appare realmente fuori luogo.
Il valore della tradizione o della fede per i credenti, va custodito in altro modo, nel profondo di se stessi, lasciando ai luoghi pubblici il loro ruolo d’incontro e di confronto. Anche perché il crocefisso non vuol dire Italia. L’Italia, si spera, è molto altro di più.

venerdì 6 novembre 2009

La ‘personalizzazione’ della politica italiana


La nuova prospettiva politica introdotta in Italia da Berlusconi quindici anni fa sembra stia mostrando i suoi difetti proprio a lui.
Il Cavaliere si impose grazie a uno sfondo storico-sociale che stava cambiando. Di fronte allo sgretolarsi delle ideologie, sotto l’eco dello sgretolamento del muro di Berlino e, ancor più importante, di fronte a una politica svelata nella sua corruzione, Berlusconi era la novità.
Persa fiducia nel sistema basato sullo spirito e sull’unità di partito, la politica apriva le porte a nuove figure provenienti da ambienti diversi e sempre meno a politici di professione.
E Berlusconi è colui che ha reso possibile in Italia questa trasformazione. La grande novità però, non è consistita solo nel suo emergere da non-politico, quanto piuttosto nella sua abilità nel trasformare il politico in un personaggio. Una sorta di ‘personalizzazione’ della politica, un uomo di stato che non è più simbolo di un’ideologia, ma di un modo di vivere, di uno stile di vita.
Il Berlusconismo è stato, ed è tutt’ora purtroppo, un ideale di vita più sociale che politico. Il Cavaliere è diventato il simbolo dell’uomo che è riuscito a farcela, ad avere successo e donne, a fare soldi, certo anche rubando, ma ‘almeno ha rubato bene’. Ecco il politico non politico. Il contenuto abbandonato per la forma. La morale vinta dal compromesso.
Ed ecco però, inevitabilmente, la doppia lama di quest’arma. Infatti un cambiamento così radicale, reso possibile dallo sfruttamento magistrale dei mezzi d’informazione, porta con sé l’inevitabile conseguenza, per chi ne fa uso, di essere al centro dell’attenzione, sempre e comunque. E non solo come politico, come oratore o capo del governo, ma come uomo, come tipo sociale. Proprio Berlusconi non può quindi lamentarsi se il caso D’Addario diventa affare di stato o se su facebook nasce un gruppo che spera la sua morte. Non può lamentarsi perché proprio questa notorietà è stata la sua fortuna, ottenuta grazie a una sapiente combinazione tra personaggio pubblico e privato.
Eppure, anche di fronte alla profonda immoralità della sua vita privata, non penso che i suoi sostenitori cambino idea, perché non basteranno mai escort o voli di stato a minare la popolarità di colui che è un esempio da onorare per milioni di italiani.
È questa la grande amarezza in fondo. Non è vero che ‘non ci sono più ideali’, semplicemente sono cambiati. Ora è l’autoaffermazione di sé l’obiettivo da raggiungere, senza nessuna considerazione dell’altro ed è per questo che Berlusconi è ancora così tristemente attuale.

mercoledì 14 ottobre 2009

Da Cento sonetti d'amore. XVII sonetto di Pablo Neruda


Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio o freccia di garofani che propagano il fuoco:t'amo come si amano certe cose oscure, segretamente, tra l'ombra e l'anima.


T'amo come la pianta che non fiorisce e reca dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori; grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo il concentrato aroma che ascese dalla terra.


T'amo senza sapere come, né quando, né da dove, t'amo direttamente senza problemi né orgoglio: così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,così vicino che la tua mano sul mio petto è mia, così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

Ecco di cosa parlo



Il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore. Dove sia il piacere, e per tutto il tempo che vi sia, non vi è posto per dolore fisico, o dell'anima, o per l'uno e l'altro insieme.
Epicuro

martedì 13 ottobre 2009

La diversità in una foglia

Come al solito era dannatamente in ritardo. Gliel'avevano raccomandato. E' una conferenza importante Laura, dobbiamo avere l'esclusiva. Inizierà per le 15,00 ma tu cerca di essere lì un pò prima. E lei ce l'avrebbe anche fatta se Penny non avesse deciso di arrampicarsi sull'edera della sua vicina. E mentre correva tra le persone alzando il suo pass non poteva far altro che chiedersi perchè aveva scelto proprio un gatto come compagno di vita. Sarà che con gli uomini non aveva mai avuto un bel feeling. L'ultimo si era silenziosamente ritirato spegnendo il telefono.
Aveva ragione il capo, era davvero un meeting importante. Continuava ad arrivare gente nonostante fossero le tre e mezza passate. E Laura doveva inventarsi quella mezz'ora che aveva perso. L'aula era stracolma e un leggero brusio accompagnava le parole scandite dalla voce acuta della presentatrice. Finalmente sulla sua poltrona, l'unica vuota fra la stampa, Laura respirò profondamente e tirò fuori il block notes, suo inseparabile compagno di vita.
'Il progresso positivo' era il titolo dell'incontro ed era già pronta a sputare veleno contro quegli intellettuali borghesi, che inneggiavano a un progresso globale, a un'economia liberista come panacea dei mali del mondo. La presentatrice vestita di blu stava intramezzando due interventi. Sempre la solita euforia, la solita cadenza regolare e il tono deciso di chi è ottimista, perchè l'uomo ha il mondo nelle sue mani e, se vuole, può cambiarlo.
Quanti ne aveva sentiti di quei discorsi Laura. E più ne sentiva, più rimaneva convinta delle sue idee. Quante battaglie contro i mulini a vento, manifestazioni, articoli e quante notti insonni a cercare un dannato modo per risvegliare l'animo rivoluzionario delle persone. Tutto invano. I suoi articoli, carta bruciata. Eppure non se ne pentiva, lei che non si era piegata nonostante la tragica scoperta del valore del compromesso. Lei non c'era cascata, aveva tirato dritto e continuava a farlo.
Era la sua rigidità che l'aveva inchiodata a un giornale di provincia, ma lei ne andava fiera. Meglio essere sconosciuti che conosciuti per ipocrisia. Eppure ci sapeva fare, era convinta di essere brava. Brava, ma troppo polemica.
Intanto gli interventi si susseguivano e i fiorellini sull'angolo del block notes stavano circondando l'intera pagina.
Il mormorio si era placato. Qualcuno faceva la faccia attenta, qualche altro annuiva. I soliti leccaculo in prima fila.
Poi si alzò lui. Camicia chiara, cravatta a righe blu e rosse e giacca scura. Pure un fazzoletto nella tasca. Occhiali squadrati e capelli corti. Buonasera a tutti, grazie per essere intervenuti così numerosi. Era lui. Ma non poteva esserlo. L'aspetto era di un altro uomo. La cravatta anche. E una conferenza del genere. Non poteva essere lui. Eppure il suono della sua voce la rimandò a vent'anni prima. Era la stessa, ma proveniva da un altro uomo.
L'aveva sentita sussurare piano quella voce, in una tenda montata alla bell'e meglio. In mezzo a quattrocentomila persone. Era filtrata attraverso una barba non fatta, si era confusa al fumo. Era forte quella voce, decisa. E lui l'aveva usata per affascinarla. Per dire cose, per dire parole che a Laura erano apparse le uniche giuste in quel momento. Era una voce decisa, intelligente. Era una voce rivoluzionaria, che vibrava e superava anche le note del rock.
Woodstock. 1969. Io e lui. Il caldo del 16 agosto. I nostri sogni, la nostra forza. I nostri ideali. Nella mente di Laura circolavano questi pensieri, si susseguivano mentre lui continuava a parlare. Doveva ascoltarlo, doveva capire. E ogni frase strideva fortemente con quelle che lei ricordava, parola per parola.
Ora parlava di progresso, di libertà, dei danni operati dai sindacati, della povertà da sconfiggere con la libera iniziativa. Dei fallimenti di un'economia statalizzata e..
e fu in quel momento, alla parola 'oggiogiorno' che lui incrociò il suo sguardo, Gli occhi, quelli rimangono gli stessi e lei avvertì una leggera inclinazione nella sua voce, come se fosse stato scoperto, come se avesse scoperto di essere in pericolo.
Laura non reagì. Appuntò per filo e per segno ogni parola e andò via, trascinando la pesante borsa patchwork in cui teneva il suo materiale.
Poi si sedette su una panchina. E respirò profondamente. Cominciarono i perchè. Perchè lui era così cambiato? Perchè, soprattutto, lei non lo era? Cominciò a chiedersi perchè lei non era cambiata insieme al mondo. E si sentì vecchia, patetica.
Poi cadde una foglia, proprio accanto a lei. A dieci centimentri dal suo piede. E pensò che le foglie cadono sempre, continuano a cadere, poi ne nascono delle altre. Ma l'essere foglia non muore.
E capì che neanche le idee muoiono, Le idee possono sporcarsi, possono essere sfiorate, possono essere conservate di nascosto. Ma le idee non muoiono. E non muoiono perchè c'è qualcuno che le porta avanti, le urla e non si piega al tempo che cambia e cerca di investirti.
E fu felice, provò una felicità unica. Si alzò, prese la mela che aveva sempre con sè e guardò allontanarsi quella mercedes scura, con quegli occhi chiari dietro al finestrino, che si erano arresi al mondo.
Ma lei no, giurò che non si sarebbe arresa mai e corse subito a casa a scrivere il suo articolo.

Punti di vista

Fin da quando era piccolo amava stare alla finestra, di notte ad immaginare altri mondi. Guardava le stelle come fori in quel manto di velluto nero e aveva sempre sperato di poterlo un giorno esplorare.

Ora, a ventisei anni, era chiamato ad affrontarlo quel cielo. Dopo tanti studi, concorsi, sacrifici, era stato scelto per la missione più importante dell'anno. Un'esplorazione senza precedenti. Sentiva di essere spaventato all'idea di lasciare il suo mondo, le sue sicure abitudini per trascorrere un periodo lontano dalla sua famiglia. Eppure quello era il suo progetto di vita. Era stato scelto tra tutti i suoi compagni e non avrebbe mai potuto rinunciare a un'occasione del genere.

Ormai mancava solo una settimana al decollo e i preparativi erano sempre più frenetici e stancanti. Tutto era curato nel dettaglio e lui si sentiva preparato a sufficienza. Il cielo lo guardava sempre, negli intervalli di riposo che gli erano concessi tra una simulazione e l'altra...
Decise di scrivere una lettera, doveva lasciare una traccia evidente di sè prima di andare via. E la scrisse per la sua famiglia.

...Deve essere impossibile, per noi abituati a tutto questo, pensare che ci possa essere altro nell'universo, eppure io sento che qualcosa oltre deve esserci. Non possiamo avere la presunzione di pensare che il nostro sia l'unico pianeta con delle forme di vita. La verità è che non ho mai creduto fino in fondo di avere l'esclusiva. Il cielo è troppo grande per essere tutto per noi...Ho sempre tentato di immaginare altri mondi, altri esseri viventi, altri tipi di vita. E l'unico modo che ho trovato per far tacere i miei dubbi è stato prepararmi per questa missione. Ho deciso di mettere in gioco la mia vita per l'ideale in cui credo e l'unica cosa che mi fa stare male è pensare che in questo modo potrei sacrificare anche la vostra felicità. E' una missione pericolosa, questo lo so. Ma spero sappiate che lo faccio perchè ci credo profondamente..
Credo che lì fuori ci deve essere qualcosa..

Smise di scrivere e guardò il suo cielo.

'Una stanza tutta per sè'

Tutti abbiamo bisogno di uno spazio proprio, in cui sviluppare la nostra personalità. E anche io ho sentito questa necessità. Voglio creare un piccolo universo, accessibile a tutti, per raccogliere le diverse espressioni della mia personalità.

Sono una studentessa di filosofia, il mio nome è Claudia. Mi piace parlare e mi piace scrivere. Mi piace anche molto leggere. Adoro il mondo delle parole insomma.

Da qualche anno faccio l'animatrice per bambini. E questo mia aiuta a tenere salda la mia freschezza, di fronte alle tante delusioni che sto cominciando a incontrare nel mondo.

Ho un grande amore nella mia vita. E spero durerà per sempre. Si chiama Andrea ed è la mia ricchezza.

Ho una sorella più piccola di me e con un carattere diametralmente opposto al mio. Penso che le nostre rette,per quanto sembrino parallele, un giorno si incontreranno.

Ho un padre che stimo molto e penso che mia madre sia stata profondamente fortunata a incontrare un uomo così. Con mia madre ho un rapporto un pò conflittuale, ma più avanza il tempo e più mi rendo conto di essere per molti aspetti come lei.

Ho anche delle amiche, poche quelle vere. Ma la mia fiducia è dosata col contagoccie, cerco di reggermi sempre sulle mie gambe.


Ora basta parlare di me. Vorrei farmi scoprire in maniera indiretta.
Spero potrete trovare cose interessanti e spero di riuscire a far crescere giorno dopo giorno questo blog.