sabato 29 ottobre 2011

Domenica mattina

Ci sono un paio di calze velate sul tappeto a righe che copre il parquet chiaro.
C’è una sciarpa che profuma ancora di sera sulla poltrona sotto la finestra. Sulla stessa poltrona un paio di jeans con la cinta infilata, una camicia a righe, un reggiseno e una borsa aperta.
Le tende trasparenti e le tapparelle chiuse. Filtra un raggio del sole freddo di Dicembre.
La porta è socchiusa. La radiosveglia sul comodino segna l’ora lampeggiando in silenzio, rispettosa e inutile. Accanto, un cellulare spento. Due orecchini e un filo di perle poggiati su un libro, fermato da una foto a pagina 216.
Sopra la testata, quella foto scattata per caso, più bella in bianco e nero.
Morbidi cuscini ricamati poggiati sul letto e un caldo piumone bianco.
Sotto il piumino s’indovinano le forme addormentate e si muove solo il respiro.
I corpi nudi, le dita ancora intrecciate e i piedi vicini.
Il tepore sereno del sonno che si consuma fino a quando ce n’è, senza sveglia a comandare.


È domenica mattina e la felicità deve essere una cosa del genere.

A.A.A. Dannato futuro cercasi.

“Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta” sosteneva Paul Valery, nel 1931 (aforisma attribuito anche a Arthur C. Clarke e Yogi Berra ndr).
Settant’anni dopo Paul Valery esprime bene il tragico problema che, a mio avviso, attanaglia l’Italia. Disoccupazione, “d-istruzione”, mancanza di coesione sociale e partecipazione politica possono essere letti, alla luce di questo assunto, come concause di un fenomeno silenzioso, che a dirlo fenomeno è anche troppo, visto che è un’assenza. L’assenza di futuro.
Non perché non ci sia. Chiunque di noi è abbastanza incline a credere di potersi svegliare nuovamente domani mattina. E, a ben vedere, anche il giorno dopo e quello ancora dopo. Probabilmente molti di noi sanno anche cosa faranno nel prossimo mese, in che modo impiegheranno le proprie energie. Ma questa non è l’idea di futuro a cui mi riferisco.
Se ci svegliassimo negli anni ’50-’60, quando per strada c’erano le prime Cinquecento e la Tv era un gioiello in bianco e nero, probabilmente avremmo più futuro in testa. I politici si affacciavano al futuro europeo, le industrie si affacciavano al futuro produttivo, gli studenti si affacciavano alla scuola moderna. Le famiglie si affacciavano alla prima lieve serenità economica dopo anni di sacrifici.
C’era un’idea di futuro, insomma. Urlata nelle piazze del ’68, parlata in Tv, vissuta nei diritti guadagnati.
Oggi il futuro in Italia non c’è più. Nemmeno se ne parla. Si parla in termini di settimane, di mesi. Al massimo di trimestri. Il futuro negli stage non si vede e non si vede nemmeno nei contratti a progetto.
In Parlamento il futuro è responsabilità di dover mantenere promesse, meglio non citarlo. La scuola? Mica si pensa al futuro a scuola. Si torna al passato, col maestro unico.
Il futuro una volta era dopo la scuola, dopo l’università. Era un progetto di vita, una famiglia, pure dei figli.
Oggi il futuro è una nebulosa. È diventato sperare di arrivare, a colpi di coda, ad avere un lavoro stabile e indeterminato, un briciolo di emancipazione e indipendenza prima dei trenta e magari la possibilità, per gli ottimisti, di maturare una pensione.
È questo il futuro che non c’è. L’assenza presente. Come un macigno sulle spalle di quelli che ce la mettono davvero tutta per costruirselo un futuro. E non mi venissero a parlare di “bamboccioni” (Brunetta ndr), non mi venissero a parlare di giovani “che non scalciano” (Bersani ndr). Piuttosto mi venissero a parlare di incentivi per l’occupazione giovanile stabile, per l’acquisto di una casa senza essere strozzati dal pizzo legale dei mutui bancari, per dei sacrosanti asili nido su cui contare, se mai si fosse così folli da decidere di mettere al mondo un figlio, per le energie rinnovabili, visto che, ad esempio, i decreti attuativi previsti per l’inizio di Ottobre ancora sono in cantiere.
Mi parlassero di questo.
Allora forse, non ci sarà più bisogno di indignarsi così tanto di fronte a un dannato futuro che non c’è.