sabato 29 ottobre 2011

Domenica mattina

Ci sono un paio di calze velate sul tappeto a righe che copre il parquet chiaro.
C’è una sciarpa che profuma ancora di sera sulla poltrona sotto la finestra. Sulla stessa poltrona un paio di jeans con la cinta infilata, una camicia a righe, un reggiseno e una borsa aperta.
Le tende trasparenti e le tapparelle chiuse. Filtra un raggio del sole freddo di Dicembre.
La porta è socchiusa. La radiosveglia sul comodino segna l’ora lampeggiando in silenzio, rispettosa e inutile. Accanto, un cellulare spento. Due orecchini e un filo di perle poggiati su un libro, fermato da una foto a pagina 216.
Sopra la testata, quella foto scattata per caso, più bella in bianco e nero.
Morbidi cuscini ricamati poggiati sul letto e un caldo piumone bianco.
Sotto il piumino s’indovinano le forme addormentate e si muove solo il respiro.
I corpi nudi, le dita ancora intrecciate e i piedi vicini.
Il tepore sereno del sonno che si consuma fino a quando ce n’è, senza sveglia a comandare.


È domenica mattina e la felicità deve essere una cosa del genere.

A.A.A. Dannato futuro cercasi.

“Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta” sosteneva Paul Valery, nel 1931 (aforisma attribuito anche a Arthur C. Clarke e Yogi Berra ndr).
Settant’anni dopo Paul Valery esprime bene il tragico problema che, a mio avviso, attanaglia l’Italia. Disoccupazione, “d-istruzione”, mancanza di coesione sociale e partecipazione politica possono essere letti, alla luce di questo assunto, come concause di un fenomeno silenzioso, che a dirlo fenomeno è anche troppo, visto che è un’assenza. L’assenza di futuro.
Non perché non ci sia. Chiunque di noi è abbastanza incline a credere di potersi svegliare nuovamente domani mattina. E, a ben vedere, anche il giorno dopo e quello ancora dopo. Probabilmente molti di noi sanno anche cosa faranno nel prossimo mese, in che modo impiegheranno le proprie energie. Ma questa non è l’idea di futuro a cui mi riferisco.
Se ci svegliassimo negli anni ’50-’60, quando per strada c’erano le prime Cinquecento e la Tv era un gioiello in bianco e nero, probabilmente avremmo più futuro in testa. I politici si affacciavano al futuro europeo, le industrie si affacciavano al futuro produttivo, gli studenti si affacciavano alla scuola moderna. Le famiglie si affacciavano alla prima lieve serenità economica dopo anni di sacrifici.
C’era un’idea di futuro, insomma. Urlata nelle piazze del ’68, parlata in Tv, vissuta nei diritti guadagnati.
Oggi il futuro in Italia non c’è più. Nemmeno se ne parla. Si parla in termini di settimane, di mesi. Al massimo di trimestri. Il futuro negli stage non si vede e non si vede nemmeno nei contratti a progetto.
In Parlamento il futuro è responsabilità di dover mantenere promesse, meglio non citarlo. La scuola? Mica si pensa al futuro a scuola. Si torna al passato, col maestro unico.
Il futuro una volta era dopo la scuola, dopo l’università. Era un progetto di vita, una famiglia, pure dei figli.
Oggi il futuro è una nebulosa. È diventato sperare di arrivare, a colpi di coda, ad avere un lavoro stabile e indeterminato, un briciolo di emancipazione e indipendenza prima dei trenta e magari la possibilità, per gli ottimisti, di maturare una pensione.
È questo il futuro che non c’è. L’assenza presente. Come un macigno sulle spalle di quelli che ce la mettono davvero tutta per costruirselo un futuro. E non mi venissero a parlare di “bamboccioni” (Brunetta ndr), non mi venissero a parlare di giovani “che non scalciano” (Bersani ndr). Piuttosto mi venissero a parlare di incentivi per l’occupazione giovanile stabile, per l’acquisto di una casa senza essere strozzati dal pizzo legale dei mutui bancari, per dei sacrosanti asili nido su cui contare, se mai si fosse così folli da decidere di mettere al mondo un figlio, per le energie rinnovabili, visto che, ad esempio, i decreti attuativi previsti per l’inizio di Ottobre ancora sono in cantiere.
Mi parlassero di questo.
Allora forse, non ci sarà più bisogno di indignarsi così tanto di fronte a un dannato futuro che non c’è.

sabato 15 ottobre 2011

Indignados, 15 Ottobre 2011. La violenza di pochi non cancella il valore di tanti.

Io voglio parlare della manifestazione che ho visto con i miei occhi. Quella in cui non c’erano bombe carta, né feriti. In cui non c’erano volti coperti, vetrine rotte, bandiere bruciate.
Io voglio parlare della signora ultraottantenne con la bandiera rossa sulla spalla e il bastone per camminare, del papà col bambino legato sul petto e della mamma col passeggino. Degli studenti che ballavano avanzando nel corteo. Dei nonni che lottavano per il futuro dei nipoti e dei nipoti che lottavano per la pensione dei nonni. Dei ragazzi e delle ragazze “col libro in mano”, come cantava Vecchioni. E degli stranieri che avanzavano nel corteo insieme agli italiani. Delle maestre, degli operai, dei professori, dei lavoratori in nero e delle mamme senza asili. Dei precari e dei disoccupati coi panini portati da casa per risparmiare. E dei fidanzati che abbracciati lottavano per il proprio futuro.
Questa è la manifestazione di cui voglio parlare e sentir parlare. Perché a quest’ora della sera,quando restano solo gli spazzini a cancellare i resti di una giornata di cortei, l’indignazione si è duplicata.
Non è più rivolta solo verso le lobby dei potenti di turno. Ora l’indignazione è rivolta anche verso quelli che col volto coperto, sotto il nome di “black bloc” sono riusciti a sporcare di violenza una manifestazione pacifica, in cui i colori della pace sventolavano con orgoglio.
Erano centinaia di migliaia le persone che da Piazza della Repubblica avanzavano con consapevolezza politica e dignitosa civiltà. E solo poche centinaia quelle che avanzavano tra la folla con la violenza nelle mani, servendo su un piatto d’argento ragioni al Governo.

Diventa semplice, quando c’è l’alibi della violenza, condannare un intero movimento politico. Ora gli Indignados, per molti di quelli che non c’erano, altro non sono che i “delinquenti” della guerriglia di Piazza San Giovanni.
Quando invece, del Corteo di oggi, si dovrebbe ricordare il valore politico di protesta sociale pacifica.

Quello che è sceso in Piazza oggi a Roma, è uno spaccato di società. È quella parte di Italia che si è stancata di restare inerme di fronte a un Governo che a colpi di fiducia ha l’arroganza di ripresentarsi come legittimo e di fronte a un sistema economico, ahimè globale, in cui a pagare sono sempre i soliti noti.

È questa l’Italia indignata del 15 ottobre, in cui le frange estreme possono sporcare la protesta, ma non per questo rendere meno valida l’ondata di partecipazione politica che ha investito Roma.

Stavolta, di fronte a centinaia di migliaia di persone, sarà difficile parlare dei “soliti violenti”. E se Berlusconi, o qualche servo per lui, decidesse di trincerarsi dietro la scusa degli episodi di violenza di Piazza San Giovanni, dimostrerebbe per l’ennesima volta il patetico tentativo di eclissare le voci di protesta.

Io la manifestazione l’ho vista. L’ho vissuta. E di voci di protesta, pacifiche, ce ne erano tante. Tutte insieme. E sono sicura che non si spegneranno. No, stavolta non si spegneranno.

domenica 25 settembre 2011

Conversando sul prato


Il sole stava scendendo. Era quell’ora incerta d’estate in cui il tramonto accade per caso, e il sole corre a nascondersi perché spera di poter uscire il prima possibile.
Sull’erba leggevano in silenzio.
D’un tratto lei chiuse il libro e si girò su un fianco. Si tolse il fermaglio e il sole le arrivò tra i capelli. Si sfiorò le labbra, poi gli prese la mano e lui capì che stava per dire qualcosa.
Lui rimase in attesa.
Un respiro. Schiuse leggermente le labbra, quel tanto che bastava per illuderlo che stesse per iniziare. Ci ripensò.
Lui sempre in attesa.
Lei si tirò su, a gambe incrociate. E lo fissava, con quel sorriso furbo e timido che le illuminava il viso quando rifletteva. La sua mano tra le sue. La teneva vicino alle labbra.
Di lì a poco avrebbe tirato fuori qualche suo strano pensiero, come un fiume in piena. Lui lo sapeva e, dio quanto gli piaceva.
Infatti iniziò, tutto d’un fiato. Lo disse come se stesse mimando una storia, una storia veloce e scandita.

-Sai che pensavo?
Pensavo che siamo in bilico sul domani.
Con la certezza di un piede ben saldo a terra.
Col tallone pesante, la pianta aderente, la terra sotto.
E l’altro piede sospeso.
Che se guardi giù, vai giù. Se guardi giù cadi, è automatico.
Se guardi dritto vedi aria e cielo. Se guardi a terra vedi il tuo piede ben fermo.
Siamo così, in bilico. Dietro quello che abbiamo attraversato, comprese le spine e i sassi duri. A terra il piede ben saldo e di fronte la strada che non c’è.
E non c’è modo per uscirne. Si può solo stare. E stare al meglio su quel piede saldato.
Però si può trovare a chi dare la mano nel frattempo.
Così siamo sempre in bilico sul domani, ma in due.
Con la certezza di due piedi ben saldi a terra.
Coi talloni pesanti, le piante aderenti.
E gli altri piedi sospesi.
Ma nella mia mano, la tua mano. E siamo in bilico, ma in equilibrio.
È così che si può fare. Restare in bilico sul domani, ma trovare l’equilibrio con la mano nella mano.
Io penso che mi piace darti la mano sai? Penso che non mi interessa poi molto se davanti ho un precipizio, una strada lunga o una fune a cui appendermi. Perché posso starci in bilico sul domani, se tu oggi mi dai la mano.
Si, stavo pensando che possiamo proprio starci in bilico se ci diamo la mano.
E mi piace anche. Mi piace darti la mano. Tu che ne pensi?


Gli lasciò la mano e si rimise il fermaglio tra i capelli.
Lui la guardava.
Sorrideva e pensava che la mano gliel’avrebbe voluta dare tutta la vita, per strada, a casa, sull’erba, nel letto, al ristorante, in auto, sul tram, in aereo, in cucina, al mare, in montagna, pure in moto, pure al supermercato. Pure a lavoro gliel’avrebbe voluta dare la sua mano.
E pensava pure che lei era matta. Matta al punto da farlo impazzire con lei.

sabato 17 settembre 2011

Il piccolo uomo ricco che si comprò lo Stivale


C’era una volta un piccolo uomo.
C’era una volta un piccolo uomo ricco.
C’era una volta un piccolo uomo ricco e qualcuno dietro di lui che sapeva farlo parlare bene.
E c’era una volta l’Italia, uno stivale piantato nel mare.
Sullo scarpone montagne e città. Nelle città donne e uomini che imbastivano vite.
Il piccolo uomo aveva un sogno: comprarsi lo stivale, montagne e città comprese.
Cominciò a parlare, su uno scalino per farsi guardare da tutti.
Fu ascoltato. E fu eletto.
Cominciò ad entrare nella vita delle persone, senza chiedere permesso.
Comprò un Giornale, per chi sapeva leggere. E comprò una Tv, per chi non voleva pensare. Comprò una squadra di pallone, perché lo divertiva. Comprò una piccola città, per farla a sua immagine e somiglianza. Comprò i libri, per entrare nei pensieri.
Cominciò a comprare donne, usava soldi e favori.
Cominciò a comprare uomini, usava soldi e favori.
Cominciò a comprare sesso, usava soldi e favori.
Le donne e gli uomini, intanto sullo stivale, continuavano a imbastire vite.
Il piccolo uomo, intanto lo stivale, continuava a comprarselo.
Un giorno la Legge lo voleva arrestare.
Quel giorno il piccolo uomo ricco comprò la Legge.
Le donne e gli uomini, intanto sullo stivale, continuavano a imbastire vite.
Le donne e gli uomini, intanto sullo stivale, continuavano a imbastire vite.
Le donne e gli uomini, intanto sullo stivale, continuavano a imbastire vite.

lunedì 25 luglio 2011

SI DEVE

Qualche volta SI DEVE.

Si deve credere nel futuro. Prendersi il buono che c'è davanti, ma credere che il buono arriverà anche domani.
Si deve godere di ogni boccone di felicità, prenderne il succo.
Raggiunto un obiettivo, riposarsi ma senza dimenticare che la strada è ancora lunga.
Si deve poggiare la testa, chiudere gli occhi e sentire il suo cuore.
Si deve per forza. Si deve.
Si deve lasciar vivere ogni bacio e essere pronti a rischiare.
Si deve trovare la forza quando è il momento di andare.
Si deve ridere quando non c'è altra scelta.
Si deve lasciarlo scoppiare il cuore, perchè le emozioni prima o poi scelgono loro.
Si deve dire vaffanculo.
E si deve dire pure scusa, a volte.
Si deve coltivare l'amicizia, dargli da bere ogni giorno.
Si deve sognare, tanto non lo sa nessuno.
E si deve tenere un occhio fisso sulla realtà.
Si deve imparare ad amare, a proprio modo e a proprio tempo.

Certe cose, prima o poi, SI DEVE.

sabato 9 luglio 2011

Pericle - Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.




Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.

Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.

Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così.

venerdì 24 giugno 2011

Mannarino - Me so 'mbriacato




"Me so' 'mbriacato de 'na donna
quanto è bbono l'odore della gonna
quanto è bbono l'odore der mare
ce vado de notte a cerca' le parole.
Quanto è bbono l'odore del vento
dentro lo sento, dentro lo sento.
Quanto è bbono l'odore dell'ombra
quando c'è 'r sole che sotto rimbomba.
Come rimbomba l'odore dell'ombra
come rimbomba, come rimbomba.
E come parte e come ritorna
Come ritorna l'odore dell'onda."

No vabè, oggi è così. Oggi è Mannarino :)

mercoledì 22 giugno 2011

Modena City Ramblers - Mia dolce rivoluzionaria




21 Giugno: Modena City Ramblers a Roma.

Quando la musica ti scorre dentro le vene.

Grazie ragazzi! :)

martedì 21 giugno 2011

La Regina delle Stelle



E avanzava tra la nebbia la Regina delle Stelle.
Con lo sguardo rivolto verso il Sole, come un fiore giallo che d'estate si disseti.
Si difendeva con gli occhi e con gli occhi lo guardava.
Si bruciava per bruciarsi.
E nell'Oceano trovava refrigerio.

E avanzava tra la nebbia la Regina delle Stelle.
Nel buio le lacrime erano trasparenti, nel buio.
La schiena dritta, a voler sfidare il cielo.
Le mani giunte, a cercare un dio per poterlo bestemmiare.
E nel Sole trovava calore.

E avanzava tra la nebbia la Regina delle Stelle.
Le contava una ad una, per dimenticarle.
Le dimenticava per poterle ricontare, come stalagtiti appese al cielo.
Il cuore caldo, per sciogliere il ghiaccio del suo guscio.
La testa alta, alta di fierezza.

E avanzava tra la nebbia la Regina delle Stelle.
E imparò che il suo sorriso poteva farle luce, nel buio.

Un'ora su Facebook. Grazie e arrivederci :)


Ieri mi sono iscritta a Facebook.
Ieri stesso mi sono cancellata da Facebook. E' stata l'iscrizione più veloce della storia. Un'ora e mezza circa sono durata.
Avevo fatto le cose per bene eh. Foto del profilo, privacy, avevo cominciato ad aggiungere amici. Avevo pensato: beh, magari non è proprio così diabolico, magari ci si diverte, si rimane in contatto, si condivide musica Proviamo!
E ho provato.

Ore 23.30. Sono iscritta, con tanto di benvenuto sorpreso da parte di qualche amico/a.

Ore 00.10: Spengo il pc, spengo la luce e mi metto a letto.

Ore 00.30: Mi alzo di scatto. Riaccendo il pc e disattivo l'account. Saluto tutti, è stato un piacere, ma non fa per me.

Oh, io ci ho provato eh; è stata l'ansia a fregarmi. Perchè ho spento il pc e ho pensato: ma io sono ancora lì in vetrina. No, non ce la faccio. Non ce la faccio perchè non voglio stare lì sopra anche quando non ci sono. Non voglio entrare in un mondo di cartone, non ci riesco proprio!

E allora, caro Facebook, è stato un piacere rapido e bastevole. Di certo sono meno severa di prima, avendolo provato. Magari mi perdo un pò di risate e qualche canzone, ma scelgo la vita vera. E sono contenta di averlo provato, perchè così sono ancora più sicura che senza facebook si vive bene, forse meglio :)

lunedì 20 giugno 2011

Serenata di strada - Modena City Ramblers




Una manciata di buoni ricordi.

domenica 19 giugno 2011

L'impotenza è nolontà, con un altro nome e dietro l'oblò.




"Non cambiare mai e cambia tutti i giorni" dice il buon vecchio Luciano.




Fosse così semplice. Fino a che punto i cambiamenti sono frutto della nostra volontà? E fino a che punto sorgono spontaneamente?




Scusate ma io alla naturalezza ci credo fino a un certo punto. Ogni nostra azione, ogni nostro comportamento è, secondo me, in qualche modo filtrato dalla nostra volontà, conscia o inconscia. Crearsi degli alibi per dire "non posso cambiare", molto spesso è lo stesso che dire "non ho voglia di cambiare" ma è più comodo.

Perchè ci si sta bene nello stallo. Ci si sta così bene che, voglio dire, perchè fare tutta questa fatica per cambiare le cose quando sono sempre state così? E questo vale in politica come nelle relazioni umane.

Un qualunquista disilluso (brutta razza da evitare assolutamente) che dice: "tanto non si può cambiare nulla", non fa altro che rivelare una sottile volontà di non cambiare nulla. O per lo meno, la volontà di non impegnarsi più di tanto. E nelle relazioni umane è lo stesso, chi dice "è il mio carattere", si mette al sicuro. Come se il carattere fosse un oblò attraverso cui guardare il mondo, un dato di fatto e non frutto di un processo. Come se si nascesse già predestinati. Scusate, ma io non ci credo. La verità è che se si vuole il cambiamento, per lo meno ci si prova.


E se non ci si prova, è perchè non c'è voglia di farlo. Ci si protegge dietro un velo d'impotenza e via così, a guardare il mondo attraverso l'oblò. Che poi, voglio dire, ci si sta pure bene dietro quell'oblò. Si resta seduti con le proprie certezze, mentre le incertezze le lasciamo agli altri.


La verità è che non esiste "non posso", esiste solo "non voglio", detto con parole diverse. E allora che la rivoluzione la facciano gli altri, e provino gli altri a cambiare le cose.


C'è, e c'è sempre stato, chi sceglie una mediocre sicurezza.


E scusate, ma io no. Io rompo l'oblò e esco fuori.




mercoledì 15 giugno 2011

Una boccia di pesci tra Matisse e i Pink Floyd


And did they get you trade your heroes for ghosts? Hot ashes for trees? Hot air for a cool breeze? Cold comfort for change? And did you exchange a walk on part in the war for a lead role in a cage?

We're just two lost souls swimming in a fish bowl, year after year, running over the same old ground. What have we found? The same old fears.



Chissà se i Pink Floyd e Matisse avevano la stessa idea in mente? Per la serie, collegamenti improbabili tra arte ed emozioni :)

martedì 14 giugno 2011

Dopotutto, la neve se ne frega



Dicono che quando hai dato tanto devi andare e fare posto, perché quello che conta non si vede, lo puoi solo immaginare. Certi sogni sanno sanguinare un po'.

Se per ogni sbaglio avessi mille lire, che vecchiaia che passerei, eppure ci vuol sudore e un minimo di cuore se non vuoi lo zero a zero. E poi, lo sanno tutti che i duri hanno due cuori e col cuore buono amano un po’ di più. E con lo stesso cuore hai provato a far capire con tutta la tua voce anche solo un pezzo di quello che sei, ma non è detto che tu ci sia riuscita.

Mentre lo sai che è andata come doveva, come poteva...è proprio quando la ferita brucia che la tua pelle si farà, e appena si farà le sentirai le vene piene di ciò che sei e ti attaccherai alla vita che hai.

Certo, è vero che certe notti, certe notti ti senti padrone di un posto che tanto di giorno non c'è, ma se sei fortunato bussi alla porta di chi è come te. Sono quelle notti in cui dici Non fai più male, ma non ci credi neanche un po’. Quelle notti in cui lo senti ancora l’odore del sesso e non lo sai se è proprio amore, fai ancora confusione..

Quelle notti in cui mi attacco alle stelle, che altrimenti si cade, e poi alzo il volume di questo silenzio che fa stare bene

Dicon tutti che la vita è corta: basta che ti giri un attimo e capisci che non riesci a farci stare tutto, anche perché quelli come me si va finché c'è né, ma è come non venisse mai il momento… Come non venisse mai il momento di dire adesso è giusto riposare…

Il problema è che voglio non dire mai "è tardi", oppure "peccato", voglio che ogni attimo sia sempre meglio di quello passato, ma gli occhi fanno quel che possono, niente meno e niente più e nonostante tu sappia quanto l’amore conta, sai anche che che il futuro è fuori garanzia.. un bacio e via.

E allora provo a vivere giorno per giorno, sempre ballando, e non prendere mai questa vita né poco né troppo sul serio, e spero che ci pensa la vita, m’han detto così.

I miei occhi han preso il colore del cielo, a furia di guardarlo. E con quegli occhi, ciò che vedevo, che ho visto, nessuno può saperlo.

Ma qui con me ci sarà un bel souvenir oltre al peso della valigia.
E io ho ancora gambe per andare, fianchi per ballare, bocca per baciare.

domenica 12 giugno 2011

Pearl Jam - Unthought known




"All the thoughts you never see You are always thinking
Brain is wide, the brain is deep Oh, are you sinking?
Feel the path of every day Which road you taking?
Breathing hard, making hay Yeah, this is living...
Look for love in evidence
That you're worth keeping
Swallowed whole in negatives It's so sad and sickening.

Feel the air up above Oh, pool of blue sky
Fill the air up with love All black with starlight..."

sabato 11 giugno 2011

Perchè vado a votare e perchè dico sì.




Immagino un "uomo medio" che mi chieda: perchè vai a votare al Referendum?


Ci vado perchè credo nella democrazia.
Ci vado perchè vogliono cucirmi la bocca.
Ci vado perchè uomini e donne sono morti per il diritto di voto.
Ci vado perchè il menefreghismo è il cancro della comunità.
Ci vado perchè è mio dovere e mia responsabilità.
Ci vado perchè libertà è partecipazione, prima di tutto.
Ci vado perchè odio i qualunquisti.
Ci vado perchè la vita di ognuno è politica, anche se molti non ci credono.
Ci vado perchè vivo in una società, volente o nolente sono sociale.
Ci vado perchè credo che si possano cambiare le cose, se tutti vogliamo cambiarle.
Ci vado perchè forse "sono una giovane idealista" come mi disse la vecchia signora razzista sul regionale per Roma Termini.


Immagino un "uomo medio" che mi chieda: perchè dici quattro volte sì?

NUCLEARE
Dico sì perchè ancora non hanno deciso dove andranno le scorie.
Dico sì perchè in Giappone se so sbagliati, ops. Ma tanto in Italia non ci sono i terremoti.
Dico sì perchè le fonti rinnovabili sono il futuro e l'uranio non è infinito.
Dico sì perchè "Non esiste un nucleare sicuro. O a bassa produzione di scorie. Esiste un calcolo delle probabilità, per cui ogni cento anni un incidente nucleare è possibile: e questo evidentemente aumenta con il numero delle centrali. Si può parlare, semmai, di un nucleare innovativo." (Carlo Rubbia)
ACQUA
Dico sì perchè privatizzare l'acqua è come privatizzare l'aria.
Dico sì perchè non possono farci la cresta su un bene di prima necessità.
Dico sì perchè AcquaLatina è l'esempio dell'affarismo. Perchè legittimare altre mille AcquaLatina?
LEGITTIMO IMPEDIMENTO
Dico sì perchè, cazzo, la legge deve essere uguale per tutti!
Dico sì perchè non posso autorizzare ancora Silvio Berlusconi a fare le leggi a suo comodo.
Dico sì perchè nella politica, come nella vita, serve la trasparenza.
Dico sì perchè al ladro di periferia che sbattono in galera perchè ha rubato al GS, nessuno gli parla di legittimo impedimento.
Quindi CI VADO e DICO Sì. QUATTRO VOLTE

venerdì 10 giugno 2011

Referendum: 4 Sì





Servono 25 milioni di italiani che dicano per quattro volte sì.
Non votare è come dire no.

Andiamo a votare! Coltiviamo la democrazia, sennò ci muore tra le mani!!!

martedì 7 giugno 2011

Regalami il tuo sogno - Liga



"Guardami negli occhi, deciderai poi, se aver paura."


16 Luglio 2011. Campovolo.

domenica 5 giugno 2011

Merlo rosso - Alessandro Mannarino





"Prende una spina, su di lei si china
e col suo sangue le toglie la rovina
la porta in dono a una ragazza pazza, che aveva perso gli occhi in una nottataccia"

Ma che bella.

venerdì 3 giugno 2011

Pasolini - La ricotta (1963)


Il dsicorso del regista, Orson Wells, diretto al giornalista "Uomo medio" potrebbe calarsi perfettamente nella nostra realtà. Dopo cinquant'anni, Pasolini si è dimostrato un preveggente.

Ecco alcuni stralci del discorso:

Giornalista:"Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?"
Regista:"Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo."
G:"Che cosa ne pensa della società italiana?"
R:"Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa."
G:"Che cosa ne pensa della morte?"
R:"Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione"


Poi il Regista recita la poesia "10 Giugno", per manifestare l'impossibilità dell'arte di realizzarsi nell'orizzonte contemporaneo, e conclude il confronto, stroncando così l'inebetito giornalista:

"Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio."


No, vabè, geniale.

Over the love - Skunk Anansie





You pretend the spell has broken...


20 Luglio 2011: Skunk Anansie all'Ippodromo delle Capannelle a Roma. Why not?

giovedì 2 giugno 2011

lunedì 30 maggio 2011

Carceri: tra scioperi della fame e democrazia


Da qualche giorno anche i detenuti del Carcere di Latina hanno iniziato uno sciopero della fame, sulla scia dell’iniziativa che ha già coinvolto da metà maggio tra le altre, le città di Imperia, Sanremo e Perugia.
L’idea, neanche a dirlo, è stata lanciata dal Radicale Marco Pannella, che ha iniziato lo sciopero il 20 Aprile scorso.
L’obiettivo, nelle parole dello stesso Pannella “è la denuncia della terribile situazione delle carceri, con l'obiettivo di ottenere un'amnistia, provvedimento ormai indispensabile per far funzionare la giustizia, e l'istituzione di una commissione di inchiesta sullo stato della democrazia composta da accademici (almeno 13 sulla falsariga dei 13 che non giurarono fedeltà al fascismo)''.
In questi casi c’è sempre il rischio che, per difendere la democrazia, si finisca per danneggiarla. Mi spiego. Ci si trova davanti ad un problema e non si può fingere che non esista. Le carceri sono sovraffollate e le condizioni dei detenuti mettono a dura prova la dignità del nostro Paese. E su questo Pannella non sbaglia. La democrazia è anche questo, garantire condizioni di vita dignitose anche per coloro che hanno violato la legge. E ciò non avviene. Prova ne siano anche i numerosi suicidi dei detenuti. In questi casi, si può dire che il sistema democratico ha fallito. La pena, da strumento legislativo di reintegro sociale, è divenuta strumento di esclusione non solo dalla società, ma dalla vita stessa.
Rispetto a questo fallimento della giustizia penitenziaria, viene da porsi delle domande e la risposta che ci fornisce Pannella, come molti altri che lo seguono in questa direzione, è una soluzione quantitativa. Ovvero, tramite amnistia, diminuire il numero dei detenuti e in questo modo ottimizzare il servizio penitenziario. L’indulto di qualche anno fa, è stato un tentativo in questo senso.
Ma è giusto, come sostiene Pannella, che per salvare la democrazia, se ne debbano mettere in dubbio i fondamenti?
Si può rispondere a un problema giudiziario pratico, logistico, con una soluzione che rischia di delegittimare la giustizia stessa?
Lo sciopero dei detenuti è degno di ammirazione e rispetto, laddove denuncia la situazione grave delle carceri italiane. Il problema c’è e va affrontato. Ma siamo sicuri che l’amnistia, l’indulto, lo scendere a patti della democrazia stessa, siano una soluzione?

giovedì 26 maggio 2011

Nussbaum e Spivak: il problema mondiale dei diritti umani



Fortunatamente, a partire dalla Seconda metà del Novecento, in concomitanza con l’emancipazione, per lo meno formale, di molte ex colonie, il nostro Occidente si sta ponendo in relazione con il problema della violazione dei diritti umani nelle società subalterne o terzomondiste.

Il problema di fondo però, è che è inevitabile affrontare questa tematica attraverso gli occhi di noi occidentali ed è naturale si sia innestato un dibattito riguardo alla legittimità o meno di alcune rivendicazioni, sulla base di teorie che salvaguardano l’autonomia e la responsabilità dei popoli.

Non è semplice oggi, in un mondo che tuttavia lo richiede, vista l’interconnessione e lo scambio quotidiano tra culture, cercare soluzioni che da un lato rivendichino diritti fondamentali e primari, quali quello alla vita, all’alimentazione o all’istruzione, dall’altro tengano in considerazione il diritto all’autodeterminazione dei popoli stessi.

La tendenza, in molti casi, è quella all’accusa di paternalismo nei confronti del mondo occidentale. Non si può pensare, scrive a proposito Spivak, che diritti interni a una cultura vengano determinati, sanciti, fatti valere dall’esterno. Si avrebbe, giunge a dire, un’altra estrema forma di colonialismo, laddove le potenze occidentali rivendicherebbero il potere decisionale su questioni delicate come quelle culturali, che in realtà non gli appartengono.

È giusto allora, mi viene da dire in maniera provocatoria, permettere la lapidazione di una donna afghana o pakistana, colpevole di tradimento? La questione, come si vede, è tutt’altro che semplice. Teorie cosmopolite e teorie postcolonialiste, di cui prendo a rappresentanti Martha Nussbaum e Gayatri Spivak, hanno proposto soluzioni a tale proposito.

Martha Nussbaum, ad esempio, con l’apporto del punto di vista economico di Amartya Sen, ha proposto una teoria delle capabilities, cioè l’idea che una società si possa dire giusta se permette ai suoi membri di sviluppare queste “capacità”, che sarebbero diritti fondamentali. Non è possibile stabilire un modo universalmente valido attraverso cui arrivare al soddisfacimento di queste capacità fondamentali, perché è contingente e relativo alle culture di riferimento. Tuttavia, si può stabilire il grado di sviluppo e realizzazione di una qualsiasi civiltà prendendo queste capabilities come criteri universali. Da un’ottica cosmopolitica, che mira alla realizzazione di un ordine giusto globale, è una proposta piuttosto interessante, perché tenta di conciliare il bisogno di criteri obiettivi, senza interferire con le specificità culturali.

In relazione invece alle teorie post colonialiste, che prendono come punto di riferimento la situazione subalterna e sottosviluppata dei Paesi che erano colonie europee, c’è l’interesse prima di tutto a salvaguardare la specificità delle singole culture. Per questo Spivak propone una realizzazione dei diritti che parta dall’interno, attraverso una pedagogia che sia prima di tutto rispetto della cultura di riferimento e appare terrorizzata dall’idea di una subalternità all’Occidente anche sul tema dei diritti umani. Questo non significa negare le tendenze positive delle democrazie occidentali, ma Spivak ritiene che queste non possano valere in realtà etniche totalmente differenti. Hobbes o Machiavelli, seppur fondamentali in terra occidentale, non aiutano a comprendere la violazione dei diritti che viene operata nei Paesi del Terzo Mondo.
La strada verso i diritti, per Spivak, deve passare per la responsabilità. Si deve lavorare, e non si esclude che il lavoro possa partire dall’Occidente, ma si deve lavorare affinchè gli abitanti di quelle zone sentano di avere un ruolo nella propria comunità, sentano di avere responsabilità e diritti. Per l’autrice solo con la consapevolezza delle proprie legittime aspirazioni si può arrivare a una richiesta che sia spontanea e costruttiva.
Il metodo è quello pedagogico. Nonostante le differenze, è nella pedagogia che si incontrano Nussbaum e Spivak, entrambe convinte che l’educazione possa fare molto per la formazione di individui che siano cittadini responsabili e consapevoli del proprio ruolo. Entrambe, inoltre, si pongono il problema dell’educazione degli educatori. E qui un confronto con la teoria democratica è inevitabile, perché entrambe le filosofe danno per presupposto il valore della democrazia e lo pongono a fondamento della loro teoria politica. Ed entrambe ritengono che solo su base democratica, di critica aperta e di confronto tra culture, si possa agevolare lo sviluppo di una forma di responsabilità nelle culture subalterne e, in questo modo, avanzare nella realizzazione dei diritti umani.

E se venisse messo in dubbio il presupposto democratico? C’è chi ritiene che lo stesso confronto democratico possa essere una forma di violenza e di coercizione. Come se ne esce?

Segue…

mercoledì 25 maggio 2011

Pezzi che non puoi riappiccicare.



Trascinandosi, le gambe tremano.

Sono i ricordi che ti fregano.



Sono i ricordi che ti fregano. Ti bussano alla porta, mentre tu sei intento a costruirti il tuo castello di ragioni, che non vale un fico secco e te lo fanno crollare, con la loro strafottenza.
Si presentano quando meno te lo aspetti, mentre apri la porta di casa, carico come un mulo, con la borsa a tracolla, la busta della spesa in una mano, la borsa della palestra nell’altra, le chiavi irrimediabilmente nel fondo, sotto a tutto il resto e la posta tra le labbra, perché hai finito le mani.
Così si presentano i ricordi, come delle maledizioni tra i denti, mentre cazzo, non fai altro che vivere la tua vita.
Oppure, quelli più infami, ti entrano in testa mentre sei in macchina, magari in mezzo al traffico e la radio sceglie per te. I ricordi che abusano delle canzoni sono i più infami, perché sono loro i responsabili del tuo sorriso triste, e del clacson dell’automobile in fila dietro di te, suonato dalla solita stronza che ha fretta.
Poi ci sono i ricordi che spuntano per caso, in quel dannato scontrino o in quel biglietto del cinema. E tu sei lì a pregarti, per il futuro, di essere più ordinato e di buttare via ciò che non serve! E di un cazzo di scontrino, che puoi fartene?
I peggiori di tutti, però, sono i ricordi che ti seguono. Ti si appiccano al culo e non c’è modo di liberartene. E la cosa peggiore è che ti portano loro, dove vogliono. In quella pizzeria, piuttosto che in quell’altra, per quella strada, invece che passare per di là. E tu obbedisci, ti fai portare da loro. Magari ci provi pure ad opporre resistenza, ma non è che puoi riuscirci.
Perché quando un ricordo si fissa, lo devi lasciare che scorra, non puoi bloccarlo. È come quando provi a bloccare l’acqua in un tubo. Lo stringi con le pinze, lo blocchi. Ma poi quello si gonfia e prima o poi il tubo scoppia e tu ti bagni lo stesso. Tanto vale lasciarlo scorrere. Tanto prima o poi finirà l’acqua no?
Che poi questi ricordi, non sono solo belli o brutti. Non li puoi classificare. Si potrebbe dire che sono talmente belli che ti fanno stare male. E tu ci anneghi, come quando mangi la nutella, tanta nutella. Ti piace, cavolo se ti pace. Mica ti basta un cucchiaino. Macchè, ci moriresti in quella Nutella. E tu lo sai quanto ti fa male, ma non puoi fare a meno di assaporarla.
E poi stai male. E pensi: ma il mio autocontrollo dov’è finito? La mia razionalità, le mi ragioni, le mie riflessioni. Se le sono mangiate i ricordi, ecco dove stanno.
Come quando quella bambina con le trecce s’era incaponita a voler fare un castello di carte davanti alla finestra. “Voglio vedere il mio cagnolino che corre in giardino”. “Ma ti voleranno le carte, c’è vento” Le diceva il papà.
Lei niente, voleva a tutti i costi farlo lì il suo castello. Allora si metteva in ginocchio sulla sedia e, lentamente, metteva le carte una sopra all’altra, senza nemmeno respirare, perché aveva tra le mani una cosa delicata!
Finchè, arrivata a un passo dalla cima, il vento spazzava via tutto.
È così che và coi ricordi. Tu la buona volontà ce la metti, di buon senso ce ne metti di più. Ma niente, arrivano e spazzano via tutto.
Sono sempre i ricordi che ti fregano.

domenica 22 maggio 2011

Quello che ho scoperto oggi.


Oggi ho scoperto che basta un istante per cambiare tutto. Ho scoperto che le emozioni non vivono di vita propria, bisogna alimentarle col pensiero. Ho scoperto che un ricordo ti può tagliare il cuore. Ho scoperto che ogni passo è davvero una scelta. Ho scoperto che non si può mai dare nulla per scontato, nè pensare di sapere tutto e di capire tutto. Oggi ho scoperto che serve sempre un motivo. E ho scoperto che ce lo possiamo dare noi un motivo. Ho scoperto che la forza di volontà è faticosa. Oggi ho scoperto che l'evidenza è un'alleata che ferisce. Ho scoperto che una scena ti rimane dentro allo stomaco e ti basta. Oggi ho scoperto che niente è assoluto, niente è dato, tutto è relativo. Ho scoperto che non possiamo mai finire di metterci in discussione. E ho scoperto che non possiamo mai finire di mettere in discussione gli altri. Oggi ho scoperto che quando ci si crede forti e si cade, ci si fa più male. Ho scoperto che la resa certe volte è l'unica strada. Oggi ho scoperto che il senso di colpa ti uccide, ma la delusione di più. Ho scoperto che per quanti sforzi tu faccia, i mulini a vento continuano a girare nel loro circolo vizioso. E tu non puoi farci proprio niente. Ho scoperto che non basta dire "non ne vale la pena". Bisogna anche crederci. Oggi ho scoperto che non si finisce mai di imparare dai propri errori. E non si finisce mai di conoscere le persone che si hanno di fronte. E certe volte basta togliersi la benda dagli occhi. Oggi ho scoperto che la rabbia certe volte è un appiglio. E ho scoperto che con la rabbia, lo stupore, l'incredulità e la verità che ti si para davanti, ci si può leccare le ferite e alzare la testa per guardare al domani.

E, per oggi, quello che ho scoperto mi basta.

venerdì 20 maggio 2011

Un gelato biscotto


... Insomma, tornando al discorso di prima, non riesco a capire se sia giusto sacrificarsi per un futuro migliore o se sia meglio vivere giorno dopo giorno il presente, rischiando magari di non avere nessuna garanzia per il futuro.
Ma la vita è veramente come il gelato biscotto vaniglia e cioccolato? Quando andavo all'oratorio da piccolo compravo sempre il gelato biscotto. Era diviso in due metà, metà vaniglia e metà cioccolato. Io preferivo la vaniglia, allora iniziavo a mangiarlo dal cioccolato, così me la tenevo per la fine. Da vero cattolico mettevo il sacrificio davanti e la goduria dopo.
Una volta a metà mi è caduto, proprio quando dovevo mangiare la vaniglia... ploff! Per terra, una volta solamente. è successo solo una volta. E se la mia vita fosse solo quella volta? Non so, ma forse bisognerebbe dare un morso di qua e un morso di là.
Non riesco a capire se la sicurezza è amica o nemica della libertà.
-Fabio Volo-

domenica 15 maggio 2011

Un altro pedofilo che dice messa. Basta coincidenze!


Sestri, Don Riccardo Seppia, sacerdote cinquantenne, arrestato per pedofilia.
Ditemi che è l’ennesimo caso. Venitemi a dire che ha risalto per motivi mediatici , che è l’ennesima coincidenza. Ditemelo pure ma non ci credo.
Se l’incidenza di episodi negativi è particolarmente alta in un determinato sistema, è possibile che il problema sia del sistema stesso. E questo in ogni ambito della vita sociale.
Se l’incidenza di episodi di pedofilia è particolarmente alta nel sistema ecclesiastico, è altamente probabile che il problema sia del sistema. Allora mi chiedo, di fronte all’ennesimo prete malato, è sufficiente “indignarsi”, “pregare”, “condannare” e andare avanti? No, penso sia il tempo di farsi delle domande. La Chiesa, dall’alto della sua poca umiltà, dovrebbe avere il coraggio di un esame autocritico, anche per la stessa sua sopravvivenza.
Se è la fede il pilastro su cui poggia il potere della Chiesa Cattolica, non si può credere che questa sia bastevole. Sono gli uomini a farsi e dirsi credenti, sono gli uomini a pregare e a dedicarsi completamente al proprio ideale religioso. E nel farlo, volontariamente e consapevolmente, ripiegano in sé, serrano i propri istinti biologici.
Non è detto che non ci si possa riuscire, perché l’esperienza di fedi ascetiche, basate sulla rinuncia alla corporeità, dura da quando esiste l’uomo. Tuttavia si deve mettere in conto, a questo punto per il bene collettivo, che non è facile, seppur lo si creda giusto, sopprimere una parte istintuale che è vera e sradicabile, in quanto naturale.
Non si tratta di dare un giudizio valoriale sulla scelta della rinuncia carnale, della spiritualità come missione di vita, perché, benché per me sia una follia, è la realtà che ancora oggi molti scelgono e con la quale dobbiamo fare i conti. Si tratta allora di far sì, che l’orientamento religioso non diventi un pericolo sociale. E per farlo bisogna accettare l’idea che gli episodi di pedofilia o di perversione sessuale, siano una criticità interna allo stesso sistema religioso. Non sostengo siano una prerogativa del sistema, com’è ovvio, ma non si può negare una coimplicazione tra fede come rinuncia alla via sessuale e episodi di rottura rispetto a questa via.
Che la soluzione sia quella protestante? Non è detto, ma sicuramente il primo passo necessario è ammettere che esiste un problema che la Chiesa deve affrontare, mettendo in discussione alcuni dei suoi fondamenti. Se questo è il mio primo auspicio, assennato e moderato, l’altro, più radicale e decostruttivo è che questa criticità, come altre di cui la Chiesa soffre oggi, sia il preludio a un’autoimplosione che ne determini la fine.

domenica 27 marzo 2011

Kant e la Libia


Da quando esiste il mondo, esiste il conflitto. È nella natura dell’uomo scontrarsi per i propri interessi, laddove per interessi voglio intendere anche la difesa di un ideale o di una prospettiva di vita. Gli avvenimenti libici sono l’ultima triste testimonianza di questa tendenza. Volendo vedere, hegelianamente, nella storia un suo perché, una qualche forma di rassicurante telos (fine, scopo) possiamo sforzarci di pensare che il sangue che scorre nelle piazze sia il prezzo da pagare per la conquista della libertà. È sempre pericoloso e sospetto legittimare la violenza per il raggiungimento di scopi, ancor di più se questi scopi sono lungi dall’essere definiti. Frattini ha prospettato la possibilità di un asse italo-tedesco per la risoluzione del dopo-conflitto libico e per la costruzione di un orizzonte democratico. Risparmiandoci l’amara ironia sulle conseguenze dell’ultimo asse italo-tedesco che la nostra storia ricordi, viene da chiedersi in che modo due forze occidentali, democratiche sulla carta, in piena crisi partecipativa, senza stabilità governativa né coerenza politica (mi riferisco al nostro Paese in particolare, considerando meno grave la situazione della Merkel in Germania, anche se la decisione sul nucleare mostra la difficoltà di seguire una linea politica coerente), in che modo queste due “forze” aspirano al ruolo di riformatrici di una società, come quella libica, in piena crisi?
Che sia l’ennesima dimostrazione della presunzione, europea e americana, di farsi garanti di valori democratici all’estero, senza riuscire in realtà a onorarli sul proprio territorio?
Di certo la situazione è estremamente complessa. Il conflitto esiste e, forse, esisterà sempre. D’altra parte non si può rinunciare all’ideale puro di una “pace perpetua”. E a questo proposito ci viene in aiuto Immanuel Kant, a testimonianza della forza senza tempo di alcune idee filosofiche. Nel suo saggio del 1795, per l’appunto “Per la pace perpetua”, Kant individua con lucidità e realismo, principi che dovrebbero a suo avviso valere universalmente per garantire una situazione di equilibrio tra stati nazionali.
Nello specifico Kant sostiene: La necessità di forme di Governo repubblicane; che il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di stati liberi e che il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di ospitalità universale.
Non serve andare oltre, basta soffermarsi su questa triplice articolazione della teoria, per comprendere quanto sia lungimirante il Signor Kant. In sostanza, guardando alla Libia: Primo necessità democrazia (attenzione, la si considera processo endemico, mai spinto o imposto dall’esterno). Secondo, decisioni a livello internazionale tra stati liberi e, c’è da aggiungere, con lo stesso peso decisionale. E in ultimo, ospitalità universale. E a questo punto, viene da chiedersi cosa penserebbe Kant di fronte alla proposta del bonus di ritorno per i clandestini (1500 euro per tornarsene in patria) proposto dal nostro Governo.
Le soluzioni teoriche, come si vede, ci sono già da oltre duecento anni. Ma nessuno ha interesse ad applicarle.

domenica 30 gennaio 2011

Berlusconi siamo noi. Dannatamente.




Ho un problema. Sto diventando anti-anti-berlusconiana. Nel senso che vado contro coloro che vanno contro Berlusconi a prescindere. Volenti o nolenti, siamo noi ad averlo legittimato nel suo ruolo, nella sua condotta vergognosa. Ad avergli messo in mano lo scettro di cartone. Dovrebbe rappresentare la volontà popolare e, purtroppo, sventuratamente, rappresenta una percentuale della volontà popolare italiana. Non voglio dire che l’Italia è solo questo. Per carità. Però è anche questo. È l’idea dei soldi ad ogni costo, del successo, del frego-io-che-freghi-pure-tu, dell’individualismo, del corpo femminile oggetto di sesso, dell’apparenza e non della sostanza. Ed ecco perché abbiamo un vecchio con la sindrome di Peter Pan molto accentuata, che si sveglia ogni mattina con l’idea di fare i suoi porci comodi da una posizione governativa. Perché, sia ben chiaro, li facesse a casa sua, con le bambine straniere che si vendono per una Louis Vuitton, sarebbe meno grave. Soggetto alla legge, sarebbe condannato in caso di reato. Ma lui non è a casa sua. È a Villa Grazioli. E non è Silvio Berlusconi, ultimo sconosciuto. È il Capo del Governo, che oltre a pensare a come coprirsi le spalle dai giudici “comunisti” con leggi ad personam, passa le nottate a sfogare la sua libido con prostitute, anche minorenni, mettendo a rischio il suo ruolo istituzionale. E di istituzionale, a ben vedere, gli è rimasto ben poco.
Quindi sono un po’ confusa. Va bene criticare, sparare a zero, compatire il Signor B. Ma va bene anche prendercela con noi stessi. Perché sono quasi sicura che se fosse successo uno scandalo del genere in Francia o in Inghilterra, senza parlare degli States (ricordando il caso Lewinsky) il Re nudo sarebbe stato gentilmente accompagnato alla porta e “condannato per atti osceni in luogo pubblico”. Perché è questo il punto. Il luogo pubblico. Per questo sono anti-anti-berlusconiana. Lui non è il problema. È un sintomo del problema italiano. E poi basta per favore con questa lamentela paternalista e protettiva nei confronti delle ragazze di Villa Grazioli. Pronte a vendersi per quattro gioielli. E noi, povere donne del 2011, nostalgiche del femminismo anni settanta, ancora crediamo che sia possibile un’emancipazione totale, una riappropriazione del ruolo sociale della donna come essere umano. E non come surrogato di un mondo maschile. Sono loro a legittimare l’abuso di loro stesse. Basta coprirsi dietro al “sistema” che fa apparire oro quello che oro non è. Le ragazze di Villa Grazioli lo sanno distinguere l’oro. Sanno il fatto loro. Vanno lì consapevoli di ciò che ottengono, vendono loro stesse e lo fanno consapevolmente. Scelta loro, va bene così. Ma perché allora dannarsi per ottenere un rispetto, una parità, un’emancipazione che le donne stesse non vogliono e buttano nel secchio?!
Si, sono decisamente confusa. Bisogna cominciare a pensare che sia vero ciò che dicono all’estero. Che siamo noi a volere tutto questo. Sono le Ruby, i parlamentari, gli amici del Signor B. Ma soprattutto sono gli italiani che non si incazzano e chiudono gli occhi per non vedere e per non sentire.
E proprio come nella favola del Re Nudo solo il bimbo parla svergognando pubblicamente il Re, mentre i sudditi restano in silenzio, qui da noi mezzo Paese si indigna, l’altra metà invece ci sta bene in questa triste, perversa e pubblica fiera delle vanità.

lunedì 3 gennaio 2011

La bellezza del somaro: Incontro con l'Altro Lacaniano



Non era un mistero che la coppia d’arte Mazzantini-Castellitto desse i suoi frutti migliori sul grande schermo. Il connubio d’amore e di professionalità si era rivelato geniale in “Non ti muovere” e oggi si riconferma vincente in “La bellezza del somaro”.
Il film, scritto da Margaret Mazzantini e diretto e interpretato da Castellitto, è nelle sale dal 17 dicembre. Un ventaglio di personaggi archetipici si interroga sulla vita, sul rapporto generazionale, sulla vecchiaia, sulla giovinezza e sui loro propri linguaggi. Bellissima l’ambientazione, studiati e caratterizzati fortemente i personaggi, quel tanto che basta per divenire simboli di uno stile di vita, di un’idea di vita, di un ruolo sociale.
In un’atmosfera realista e al contempo fiabesca, viene dipinto il quadro di una cultura moderna che, nel suo essere tale, non è priva di pregiudizio. Con un’ironia latente e raffinata, “La bellezza del somaro” mette a nudo i punti critici dei rapporti familiari e, più in generale, la difficile relazione con l’altro. L’Altro Lacaniano, che non a caso è citato nel film, inteso sia come individuo reale con cui scontrarsi, sia come Altro in senso lato, per definizione il Diverso, l’Altro da sé, tutto ciò che non rientra in noi, nella nostra cultura, nel nostro carattere, nelle nostre abitudini e personalità, nella nostra sfera personale.
Necessaria una lettura attenta per comprendere il senso del film, uno dei tanti che gli si possono attribuire, ricordando la lezione di Umberto Eco, e probabilmente consigliata più di una visione per leggere tra le righe. Per andare oltre la fotografia, i bravissimi attori, i dialoghi e la storia in sé e cogliere, grazie a tutti questi elementi, la riflessione profonda sul rapporto tra noi e gli altri, laddove i primi altri sono i nostri figli o i nostri genitori.
Dalla mia, la riflessione che sorge spontanea è: fino a che punto l’Altro è opposto a noi e fino a che punto invece l’altro è anche in noi stessi? Fino a che punto ciò che pensiamo esterno ed estraneo è realmente tale? Forse è possibile trovare un punto zero di coincidenza tra l’Io e l’Altro, il punto dello scontro, che può divenire dialettica costruttiva (e questo ben si evince dalle relazioni umane simbolicamente rappresentate nel film).
“La bellezza del somaro” forse è questo. È il somaro che sembra altro da noi, sembra fuori da noi, ma è anche in noi, fissamente presente, proprio come il somaro che domina la scena ed è onnipresente nel film.
Questa è solo una lettura, d’altra parte ogni arte si presta a molteplici interpretazioni. Per chiunque voglia riflettere su “La bellezza del somaro” , il film è proiettato al cinema Oxer e al Corso Multisala.