giovedì 26 maggio 2011

Nussbaum e Spivak: il problema mondiale dei diritti umani



Fortunatamente, a partire dalla Seconda metà del Novecento, in concomitanza con l’emancipazione, per lo meno formale, di molte ex colonie, il nostro Occidente si sta ponendo in relazione con il problema della violazione dei diritti umani nelle società subalterne o terzomondiste.

Il problema di fondo però, è che è inevitabile affrontare questa tematica attraverso gli occhi di noi occidentali ed è naturale si sia innestato un dibattito riguardo alla legittimità o meno di alcune rivendicazioni, sulla base di teorie che salvaguardano l’autonomia e la responsabilità dei popoli.

Non è semplice oggi, in un mondo che tuttavia lo richiede, vista l’interconnessione e lo scambio quotidiano tra culture, cercare soluzioni che da un lato rivendichino diritti fondamentali e primari, quali quello alla vita, all’alimentazione o all’istruzione, dall’altro tengano in considerazione il diritto all’autodeterminazione dei popoli stessi.

La tendenza, in molti casi, è quella all’accusa di paternalismo nei confronti del mondo occidentale. Non si può pensare, scrive a proposito Spivak, che diritti interni a una cultura vengano determinati, sanciti, fatti valere dall’esterno. Si avrebbe, giunge a dire, un’altra estrema forma di colonialismo, laddove le potenze occidentali rivendicherebbero il potere decisionale su questioni delicate come quelle culturali, che in realtà non gli appartengono.

È giusto allora, mi viene da dire in maniera provocatoria, permettere la lapidazione di una donna afghana o pakistana, colpevole di tradimento? La questione, come si vede, è tutt’altro che semplice. Teorie cosmopolite e teorie postcolonialiste, di cui prendo a rappresentanti Martha Nussbaum e Gayatri Spivak, hanno proposto soluzioni a tale proposito.

Martha Nussbaum, ad esempio, con l’apporto del punto di vista economico di Amartya Sen, ha proposto una teoria delle capabilities, cioè l’idea che una società si possa dire giusta se permette ai suoi membri di sviluppare queste “capacità”, che sarebbero diritti fondamentali. Non è possibile stabilire un modo universalmente valido attraverso cui arrivare al soddisfacimento di queste capacità fondamentali, perché è contingente e relativo alle culture di riferimento. Tuttavia, si può stabilire il grado di sviluppo e realizzazione di una qualsiasi civiltà prendendo queste capabilities come criteri universali. Da un’ottica cosmopolitica, che mira alla realizzazione di un ordine giusto globale, è una proposta piuttosto interessante, perché tenta di conciliare il bisogno di criteri obiettivi, senza interferire con le specificità culturali.

In relazione invece alle teorie post colonialiste, che prendono come punto di riferimento la situazione subalterna e sottosviluppata dei Paesi che erano colonie europee, c’è l’interesse prima di tutto a salvaguardare la specificità delle singole culture. Per questo Spivak propone una realizzazione dei diritti che parta dall’interno, attraverso una pedagogia che sia prima di tutto rispetto della cultura di riferimento e appare terrorizzata dall’idea di una subalternità all’Occidente anche sul tema dei diritti umani. Questo non significa negare le tendenze positive delle democrazie occidentali, ma Spivak ritiene che queste non possano valere in realtà etniche totalmente differenti. Hobbes o Machiavelli, seppur fondamentali in terra occidentale, non aiutano a comprendere la violazione dei diritti che viene operata nei Paesi del Terzo Mondo.
La strada verso i diritti, per Spivak, deve passare per la responsabilità. Si deve lavorare, e non si esclude che il lavoro possa partire dall’Occidente, ma si deve lavorare affinchè gli abitanti di quelle zone sentano di avere un ruolo nella propria comunità, sentano di avere responsabilità e diritti. Per l’autrice solo con la consapevolezza delle proprie legittime aspirazioni si può arrivare a una richiesta che sia spontanea e costruttiva.
Il metodo è quello pedagogico. Nonostante le differenze, è nella pedagogia che si incontrano Nussbaum e Spivak, entrambe convinte che l’educazione possa fare molto per la formazione di individui che siano cittadini responsabili e consapevoli del proprio ruolo. Entrambe, inoltre, si pongono il problema dell’educazione degli educatori. E qui un confronto con la teoria democratica è inevitabile, perché entrambe le filosofe danno per presupposto il valore della democrazia e lo pongono a fondamento della loro teoria politica. Ed entrambe ritengono che solo su base democratica, di critica aperta e di confronto tra culture, si possa agevolare lo sviluppo di una forma di responsabilità nelle culture subalterne e, in questo modo, avanzare nella realizzazione dei diritti umani.

E se venisse messo in dubbio il presupposto democratico? C’è chi ritiene che lo stesso confronto democratico possa essere una forma di violenza e di coercizione. Come se ne esce?

Segue…

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