mercoledì 24 febbraio 2010

Schopenhauer e i baci perugina sull'ALTRO.


Ogni persona che passa nella nostra vita è unica, lascia un po’ di sé e prende un po’ di noi.

Mi è venuta in mente questa frase, non ricordo dove l’ho sentita. Ma oggi l’ho pensata. Poi ho provato a digitarla su google ed è comparsa in molte forme diverse, ma citata in tantissimi link.
Il bello di ciò che studio, la filosofia, è che mi sto accorgendo che mi spinge ad andare oltre l’evidenza delle cose, o meglio, ad analizzare le parole, le frasi. Quindi, se pur non mi concederà un posto confortevole nella società, sono sicura già da ora, che i miei studi non saranno trascorsi invano, anzi avranno arricchito la mia personalità. Perché, parlando in generale, ciò che studio sono visioni del mondo diverse. E proprio questa diversità io la considero una ricchezza.
Tornando alla frase, riflettendoci un po’ su, credo sia, nella sua essenzialità, profondamente vera. Dimostrazione che si può trovare qualche spunto utile anche in una frase stile “baci perugina”.
Voglio cercare di prescindere, in questa riflessione, da spunti autobiografici, anche se resto convinta che ogni parola scritta è frutto, anche indiretto o involontario di ciò che abbiamo vissuto.
Ad ogni modo, è vero che ogni persona è UNICA. Sembra un dettaglio scontato, eppure è così. E spesso pochi se ne ricordano, compresa me, oggi che la tendenza al qualunquismo e al generalismo è sempre più forte.
Ma quello che mi preme realmente sottolineare è l’importanza della seconda parte della frase. È un modo secco per dire che l’individuo si può realizzare solo a contatto con gli altri, aprendosi, dandosi, rinunciando almeno dal punto di vista emotivo, a quel solipsismo che invece lo incastra dal punto di vista gnoseologico. E qui torna attuale la lezione di Schopenhauer, poco capito forse e spesso liquidato con l’accusa di “pessimismo” senza via d’uscita.
A mio avviso, nell’ultima fase della sua vita, è riuscito a rivalutare la dimensione intersoggettiva, capendo che per vivere bisogna aprirsi, rinunciando alla propria sicurezza di individuo, per perdersi nella molteplicità.
E forse con uno sguardo azzardato, quella frase da “baci perugina” può farci capire questo: rischiare, abbandonarsi al corso degli eventi, incontrare persone, non aver paura di parlare, di comunicare, di ascoltare. Non aver paura di vivere gli altri, perché è solo tramite questa meravigliosa contaminazione umana che si vive realmente.

lunedì 22 febbraio 2010

Radiofreccia e dio.






Premessa: chi scrive è a-tea, cioè senza dio. È il mio blog, quindi ci scrivo liberamente ciò che penso. Ma amo la dialettica e il confronto, quindi critiche benvenute!






“Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio.”


In questa semplice frase, pronunciata alla svelta di fronte al microfono di una vecchia radio di provincia, Freccia ha racchiuso uno dei problemi più grandi dell’umanità. Per provare ad analizzare certi problemi, bisogna cambiare prospettiva e solo in questo modo si può assumere un atteggiamento critico rispetto a ciò che ci riguarda più da vicino, a ciò dentro cui siamo anche noi.
Per fare un esempio, siamo talmente abituati a vivere con l’ausilio dell’elettricità che non ci poniamo il problema di come sarebbe diversamente. Nello stesso modo siamo così immersi in una società impregnata di religione, nel nostro caso cattolica, da non pensare che ci sono visioni del mondo alternative.
Ho aperto con la frase di Radiofreccia perché fa comprendere quale ambiguo rapporto ci sia nella mente dell’uomo tra la realtà mondana e quella soprannaturale, potendola definire così. Tra il mondo, inteso come esperienza sensibile, e un ipotetico dio. È così fortemente radicata in noi l’idea di un mondo extrasensibile, ulteriore, finale, che siamo arrivati a definire poco ciò che abbiamo di fronte agli occhi, ciò che siamo realmente.
Freccia parte da questo presupposto: Credo che non sia tutto qua. E già da qui emerge da un lato il disincanto per il mondo in cui vive e dall’altro la speranza, spinta a credenza, che ci sia qualcosa di ulteriore, che quindi legittimi la pochezza di questo stesso mondo.
La spinta all’oltre d’inizio frase cade però di fronte all’esigenza di “fare i conti con quello che c’è qua”. Cioè a dire, potrebbe darsi che ci sia qualcosa oltre, voglio credere che sia così, ma non per questo posso dimenticare la mia vita reale, quella fatta di carne e sudore.
Ma il passo decisivo è a fine frase, quando Freccia, data un’occhiata al mondo e visto che non è abbastanza, “misà che crederà prima o poi in qualche dio”. È proprio questa la dimostrazione che in maniera circolare chiude il ragionamento. “Io so che devo fare i conti con quello che c’è qua, non posso dimenticarlo per un oltre che non vedo, eppure proprio il dolore di ciò che vedo, mi spinge a credere in qualcosa d’altro.”
Una sconfitta nella sconfitta. O meglio un ammettere la sconfitta, rispetto all’impossibilità di vivere la vita reale. Perché se la frase fosse finita senza quel “e allora mi sa…” sarebbe stata una vittoria. Credere, prima di tutto a quello che c’è davanti agli occhi, ogni dannato giorno.
Peccato che gli uomini e le donne, da millenni a questa parte, non hanno avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà, abbandonandola o, peggio ancora, finalizzandola a un futuro immaginato grazie a fantomatiche allegorie di vari testi sacri. Rispetto a questa esigenza poi, c’è chi è riuscito nell’intento di trovare uno scopo ulteriore alla vita presente e accetta in quest’ottica con una serena rassegnazione ciò che gli succede, perché tassello di un ipotetico progetto più vasto. Ma c’è anche chi non ci riesce, si chiude in una fede per vivere quei momenti di conforto immaginario, fermo restando il ricadere poi nello sconforto più totale alla prima difficoltà.
Per i primi, beh, beati loro. Hanno trovato la felicità, certo in un mondo di cartone, ma sono felici. Felici nella rinuncia magari, nel sacrificio, ma soprattutto felici per la speranza che hanno. Per gli altri però non è così semplice, anzi, la fede spesso diventa un peso in più da sostenere, un problema da spiegarsi e non un conforto. E allora a che scopo?
Poi ci sono altre persone( e io mi sento tra queste) che non ci credono a “qualche dio”. Pur avendo vissuto in un mondo così fortemente religioso, non sono riuscite a creare una loro coscienza di fede. E come negli altri casi ci sono pro e contro. Come sarebbe bello, ad esempio, avere la certezza di rincontrare quelli che se ne sono andati per sempre. Avere la certezza che la bontà “viene sempre premiata” e che i cattivi prima o poi avranno ciò che spetta loro. Sarebbe rassicurante. D’altra parte però, chi non è imbrigliato in religioni confortanti, ha un mondo molto più ampio davanti a sé. Ne ha uno in meno certo, ma molto più ampio e pieno di sfumature. Non c’è il peccato, ma la propria coscienza. Non ci sono dogmi, ma ragionamenti. Non ci sono dei, ma la natura. Non c’è il demonio, ci sono le persone cattive. Non c’è chi ha la verità in tasca, ci sono tante verità, diverse e per questo dialetticamente costruttive. Non ci sono costrizioni contro natura, solo scelte e piacere.
Come ho premesso, chi scrive è un’atea. Una senza dio, che dio neanche lo cerca né lo vuole, perché non serve. E se mi sarò sbagliata, beh, lo scoprirò quando sarà troppo tardi per tornare a cancellare la mia vita vissuta a pieno. Meglio così.