venerdì 12 novembre 2010

Di nuovo Pogge e altre riflessioni




Scrive Pogge, a proposito del materialismo storico di nonno Karl, a pag 7 del suo illuminante libro (“Povertà mondiale e dirittti umani” Editori Laterza 28 Euro):

“E’ innegabile che i nostri interessi e la nostra condizione materiale influenzino le nostre idee su quel che riteniamo moralmente saliente, sulle nozioni di giustizia ed etica che troviamo attraenti e interessanti e sulle riforme che riteniamo realizzabili oppure utopiche. Consideriamo se sia ingiusto negare l’assistenza sanitaria di base ai cittadini perché non possono pagare. È più probabile che un povero trovi la questione più importante di un ricco. (…) La condizione materiale e gli interessi personali influenzano anche i giudizi concreti che ciascuno trae dai propri valori morali. Almeno inconsciamente le persone tendono a interpretare i loro valori morali a proprio favore (…)”

Questione questa, a dir poco dibattuta e controversa. Vorrei provare a lasciare sullo sfondo l’ambito morale, laddove per morale intendo l’approvazione o meno di comportamenti, di norme comuni, in base a un criterio etico condiviso da un gruppo sociale. Pogge infatti mi da lo spunto, nel mio flusso di coscienza quotidiano, per soffermarmi su un problema diverso: quello della felicità, intesa aristotelicamente come realizzazione della propria vita. Per onestà, diciamo intellettuale, devo mettere in chiaro che approvo l’idea che la morale di un individuo, o meglio, di un gruppo, sia il risultato, oltre che di altri fattori, anche della posizione socio-economica che quell’individuo o gruppo si trova a ricoprire. Spingendomi oltre, e qui nonno Karl mi strizza l’occhiolino, credo fermamente che la condizione socio-economica di un individuo sia uno dei fattori principali per la realizzazione della sua felicità. Sia ben chiaro, non voglio intendere banalmente ricchezza=felicità o ancor peggio elevazione sociale=felicità. Voglio prendere il tutto da un’altra prospettiva. Cioè non penso assolutamente che la ricchezza comporti felicità, ma penso che la non-povertà, non-indigenza o semplicemente una condizione di moderato benessere, siano un ostacolo in meno al raggiungimento della felicità, intesa sempre come realizzazione dell’uomo nella società che conosciamo. Se continuo il mio ragionamento, di nuovo sottolineando come per felicità intendo realizzazione personale a tutto tondo, che coinvolga rapporti umani, possibilità creativa, libertà espressiva, di movimento, di conoscenza, viene da sé che, nella nostra società, tutto ciò è possibile o meglio, è facilitato da una condizione economica non disagiata.
E adesso arrivo al punto. Credo che la vita a nostra disposizione sia una o meglio, questa di certo ce l’abbiamo. E non concepisco l’idea che una persona possa trascorrere la sua vita nel sacrificio e negli stenti, o semplicemente debba vivere lo stress economico che non gli permette di fare ciò che vorrebbe o di sviluppare se stesso in modo adeguato. Qui i teorici dei “due cuori e una capanna” potrebbero snocciolarmi esempi su esempi di felicità nate nel sacrificio e ci credo pure perché le ho conosciute e le apprezzo ancor di più. Non credo che sia impossibile sviluppare e realizzare se stessi felicemente anche con il costante peso del denaro (o meglio del non denaro), credo che però non sia giusto che un uomo o una donna debbano passare il proprio prezioso tempo spaccandosi la schiena e sottraendo tempo ed energie alla realizzazione di loro stessi. Mentre una ricca signora imbellettata e magari mantenuta dal ricco marito può dedicarsi alla pittura, leggere i suoi libri preferiti e spalmarsi un’antirughe costosissimo prima del tè con le amiche.

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